“493” di Federica Poli

25/04/2020

 

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493 sono i giorni trascorsi dalla mia diagnosi di tubercolosi farmaco sensibile con polmone destro distrutto – e conseguente ricovero d’urgenza in regime di isolamento nel reparto di Malattie Infettive dell’Ospedale di Alessandria – alla mia ultima dimissione ospedaliera post pneumonectomia totale.

493 giorni che hanno cambiato me e la mia vita.

493 giorni che mi hanno consumata. Presa a pugni. Sfregiata. Bastonata.

493 giorni in cui ho sofferto, pianto, avuto paura.

493 giorni in cui di merda ne ho dovuta mandare giù tanta, troppa, e non solo in termini di farmaci.

493 giorni in cui ho indossato una corazza, alzato la guardia, respinto i colpi. Colpo su colpo. Un colpo alla volta.

493 giorni in cui ho resistito e dai quali, come la Fenice, sono rinata.

Perché nonostante il dolore, la paura, le umiliazioni, le ‘torture’ non ho mai smesso di pensare che alla fine sarei stata più forte io e che a ogni caduta non avrei potuto fare altro che rialzarmi e continuare a lottare.

Ho perso il mio straccio di lavoro, persone che pensavo amiche, momenti con mia figlia che non ritorneranno mai e per i quali continuerò per tutto il resto della vita a sentirmi in difetto con lei, troppi sentimenti, un polmone. Ma sono tornata a casa, con molto più di quel che ho perso.

La tubercolosi ti resta dentro, per sempre, anche quando non c’è più. Continua a fare parte di te, perché mentre lei cambia forma tu cambi con lei. Non puoi nascondere di essere il prodotto di ciò che lei ti ha fatto. Non puoi farci niente, è un processo inevitabile e irreversibile. E non per forza è male. Anche quando ti divora e di male te ne fa tanto. Che poi, più che del male fisico, quello che io conservo è il ricordo del male che la tubercolosi mi ha fatto nell’animo. Le ferite peggiori le ha inferte lì, tutte al cuore. Sulla pelle porto il segno indelebile del suo passaggio, di ciò che mi ha lasciato – una cicatrice che dal seno sorride beffarda fino quasi a metà schiena – e di ciò che si è portata via – il polmone destro – eppure è tutto ciò che gli altri non hanno visto che mi ha ferita più in profondità.

Ma al tempo stesso, è anche ciò che mi ha salvata. Perché mentre lei colpiva al cuore, io ho deciso di mettergli la corazza, a quel cuore sotto assedio, e di respingere ogni attacco, colpo su colpo, un colpo alla volta, per tanti lunghissimi – interminabili – mesi. Così mentre il corpo sentiva dolore e ogni tanto provava a lasciarsi andare per non sentirne più, il cuore non gli lasciava spazio e tempo per mollare.

La resilienza è la capacità di affrontare un trauma, di assorbirlo e superarlo. L’ho sempre percepito come un atteggiamento passivo, dando a questa passività un’accezione negativa. Per indole, per trascorsi di vita, per scelta ho sempre pensato che fosse la resistenza l’atteggiamento migliore per me, perché chi resiste si oppone con tutto sé a un qualcosa che non può e non vuole accettare.

E invece in questi 493 giorni ho dovuto rivedere le mie posizioni, le convinzioni di una vita intera, ho dovuto accettare di essere resiliente, con pazienza e assertività, per poter essere resistente, con forza e anche incoscienza.

La chiamano anche consunzione, la tubercolosi. Ti consuma davvero, giorno dopo giorno, nel corpo – sono arrivata a pesare 41 chili, perdendone circa 15, chilo più chilo meno – e nello spirito. E non ti consuma solo lei.

Ti consumano le cure. Quelle stesse cure che da una parte ti strappano alla morte, dall’altra ti devastano a tal punto che, pur comprendendone l’importanza, l’unica cosa che vorresti fare è prendere le tue 18 pastiglie quotidiane e buttarle nel cesso, tutte quante. Amen.

Per 12 mesi mi sono imbottita di flebo prima e di pastiglie poi, ho fatto colazione con mix esplosivi di farmaci di ogni foggia, ho fatto la pipì arancione – risparmiandomi almeno di sudare e piangere nella stessa colorazione, come altri mi hanno raccontato di aver fatto –, ho lottato con gli effetti collaterali a breve termine delle terapie. Alcuni più a lungo termine – irreversibili? – sono ancora qui a ricordarmi che un tempo sono anche stata sana! Ho subito un’intossicazione da etambutolo che mi ha portata a perdere quasi totalmente la vista per due mesi e che mi ha segnato in maniera indelebile la memoria, facendomi tremare ancora oggi – a distanza di 2 anni – quando mi sembra, magari a fine giornata dopo aver usato troppo il tablet o il computer, di avere la vista leggermente offuscata. È una lunga strada quella che porta alla guarigione totale, le terapie sembrano non avere mai fine, ogni pastiglia che ingoi non è una pastiglia in meno verso la libertà ma una tortura in più sul tuo cammino. Prendevo le mie pastiglie a colazione e aspettavo, ogni mattina, le canoniche due ore che mi separavano da uno stato di stordimento mentale che durava all’incirca un altro paio di ore. Tutti i giorni, per 12 mesi, due ore di testa svuotata, pensieri fermi e voglia di chiudere gli occhi e dormire, dormire, solo dormire per non provare più niente.

Ti consuma l’ospedale. Quel luogo che da una parte ti garantisce protezione quasi totale da ogni attacco interno o esterno al tuo corpo, dall’altra si trasforma in una prigione per il corpo e per la mente, specie quando ti succede di doverci trascorrere 66 giorni consecutivi, di cui 52 in isolamento, l’unica cosa che vorresti fare è firmare per uscire e tornartene a casa tua. Probabilmente a morire eh, ma a casa tua.

Il mio primo ricovero agli infettivi, nonostante le meravigliose e insostituibili persone – non una esclusa – che si sono prese cura di me, non mi ha risparmiata dal sentirmi come un leone in gabbia o un carcerato in cella. Privata – per il mio bene, certo, lo so – non solo della libertà di movimento, ma anche del piacere della condivisione e del vivere insieme. Privata – questo per sfinimento – della capacità di elaborare ragionamenti. Io che ho sempre divorato decine di libri e scritto fino a farmi venire male alle mani non sono riuscita, in quei mesi di fermo forzato, a leggere nulla né a mettere nero su bianco il groviglio che avevo al posto dello stomaco, nel quale di giorno si avvicendavano per lo più preoccupazioni, dubbi, inquietudini che riuscivo a chetare solo la notte con qualche goccia di lexotan. Nella testa solo un grande vuoto cosmico, che sono riuscita a colmare dopo tanti giorni e un difficile percorso interno di accettazione.

Ti consuma la solitudine. Quella condizione che da una parte salva te dall’esposizione ad agenti esterni potenzialmente pericolosi e tutta la tua cerchia di persone care dall’esposizione al maledetto bacillo, dall’altra ti aliena, ti colpisce ai fianchi come un pugile scatenato su un ring dal quale non vuole farti scendere con le tue gambe, ti sobilla nei confronti di tutti coloro che stanno al di là di quella porta a vetri che ti separa dal mondo, dalla vita, dalla tua ragione di vita. Mentre invidi la libertà degli altri e provi odio per chiunque, tutto quello che desideri è scappare così come sei – in pigiama e ciabatte perché tua mamma si è portata via anche le tue scarpe e il tuo giubbotto quando si è chiusa alle spalle quella porta a vetri maledetta – e correre. Correre lontano per vedere tua figlia – magari per l’ultima volta, chissà? – tu che non ti reggi neanche più in piedi tanto sei lo spettro di te stessa, di ciò che sei stata, ma che sei divorata dalla paura di non poterla vedere più. E allora sai che potresti anche provarci, a correre ancora una volta, veloce verso la meta.

Ho sempre amato la solitudine, perché nella mia solitudine ho sempre saputo fare i conti con me stessa, con le mie fragilità, con i miei dubbi esistenziali. Ho sempre avuto necessità dei miei spazi di solitudine, di cui sono sempre stata gelosa. Nonostante questa esperienza di isolamento, amo ancora trovarmi da sola a parlare con me stessa, senza né regole né compromessi. Quell’altro tipo di solitudine, no, quello l’ho odiato, l’ho subìto, l’ho dovuto ingoiare con la stessa repulsione con cui ingoiavo le pastiglie negli ultimi mesi di terapia. Ma è stato funzionale anch’esso, a modo suo, e negli ultimi giorni della mia prima degenza è stato fondamentale nel farmi tornare a galla, dopo avermi trascinata sul fondo, perché in quella solitudine imposta ho finalmente trovato gran parte delle risposte di cui avevo bisogno.

Ti consumano, per ultimi ma non in ordine di importanza, gli sguardi delle persone. Mentre alcuni ti carezzano, d’amore o di pietà – nel senso della pietas latina –, dandoti la forza di stringere i denti e non pensare a nulla se non a guarire, altri sono taglienti come lame, ti fanno sentire un appestato, ti strappano l’anima, ti rendono tanto sbagliato da farti credere che essere malato sia una colpa, un’onta, un disonore da nascondere al mondo per non dover vivere per il resto dell’esistenza con quel marchio sulla pelle.

La mia fortuna è stata principalmente una. Quella di ammalarmi in un Paese nel quale, nonostante sia ancora tanta l’ignoranza che circola attorno alla tubercolosi tra la gente comune, nessuno dei medici che mi hanno seguita in quei 493 giorni mi ha mai detto – come purtroppo succede in altri Paesi come, ad esempio, la Russia – di “non dirlo a nessuno” a tutela di quell’accettazione sociale che andrebbe in frantumi di fronte a una malattia di tale portata. Perché sopravvivere allo stigma si può solo prendendo coscienza del fatto che anche da malati si è persone esattamente come prima, oltre che come le altre, ma è difficile prendere coscienza di questo se addirittura un medico ti consiglia di nascondere al mondo la tua condizione per non esserne automaticamente emarginato. La mia fortuna è stata quindi questa, in buona parte: di aver trovato sul mio cammino medici e infermieri che non mi hanno mai fatto percepire la benché minima differenza tra me e il resto del mondo. Mi hanno sostenuta e spronata, hanno saputo cogliere le mie debolezze e trasformarle in punti di forza, mi hanno coccolata ma anche urlato addosso il loro disappunto quando è stato necessario a farmi rialzare la testa e prendere decisioni importanti, mi hanno fatta sentire a casa anche se casa era a una distanza siderale da me. In quella grande seconda famiglia ho imparato che noi non siamo la malattia che portiamo dentro e che quella malattia non può diventare il metro di giudizio con cui gli altri ci valutano. E ho imparato a fottermene di tutti gli sguardi di commiserazione che ho sentito sulla pelle, di tutte le parole mal dette che ho sentito, di tutti i silenzi assordanti che ho ascoltato.

Ho avuto la fortuna di non essere succube dello stigma pur avendolo provato sulla mia pelle e ho avuto la spregiudicatezza di affrontarlo dicendo sempre serenamente “ho la tubercolosi”. Che poi, all’inizio non è stato facile. È stato più facile sentirselo dire – qualsiasi schifezza è meglio di un tumore al polmone, ho pensato – piuttosto che doverlo ripetere alla famiglia, agli amici, ai colleghi, a chi candidamente mi chiedeva dove fossi finita tutto quel tempo o dove fossero finiti i miei 15 chili. Non è stato facile sentire le congetture di gente che manco sapeva chi fossi o che faccia avessi, ma che aveva ben chiaro in testa il meccanismo con cui ci si ammala di TBC al giorno d’oggi. Come non è stato facile accettare lo stupore di un medico di base alla notizia che la compagna del suo assistito non fosse un’immigrata, perché si sa che la tubercolosi ce l’hanno loro e sono loro ad attaccarcela! E non sono state facili da mandare giù tante altre cose. Ma non mi sono mai nascosta dietro a un dito o protetta con delle bugie. “Ho la tubercolosi, prendere o lasciare. Se ti piace è così, se non ti piace è un problema tuo, perché io di problemi ne ho già fin sopra i capelli!”. Questo più o meno il pensiero che mi ha accompagnata ogni volta che ho dovuto o voluto dare una spiegazione a qualcuno sul mio stato di salute. Nessuna vergogna, nessun senso di colpa. Non me la sono cercata, come tanti avranno pensato. Non mi sono divertita, né prima né durante né poi. Mi è capitata, come nella vita capitano tante cose. Mica tutte ci piacciono, ma tant’è, le prendiamo come vengono. Certo questa faceva parecchio schifo eh, ma come dicevo prima qualsiasi schifezza sarebbe stata meglio di un tumore al polmone, quindi alla fine è andata bene anche così. Ho iniziato pure a riderci su, di ‘sta tubercolosi così sfrontata che aveva deciso di smangiucchiarsi quasi tutto il mio polmone insieme a quel maledetto del suo amico fungo, l’aspergillo. Ché se faccio una cosa io la faccio bene, altrimenti tanto vale, e me li sono presi tutti e due. Anzi, a volerla dire tutta c’era pure la pseudomonas aeruginosa a banchettare con loro, ma poi basta davvero che altrimenti incomincio a farmi impressione da sola. E quando inizi a riderci su delle tue malattie, di ciò che comportano, del fatto che ci sei andato a tanto così dal vederla in faccia la morte, del fatto che anche se sei sopravvissuto a quello magari esci dall’ospedale e ti travolgono sulle strisce pedonali e allora chi te l’ha fatto fare di sopportare tutto quello che hai sopportato, beh quando inizi a ridere di tutte queste cose, alle tue malattie hai già assestato un bel calcio là dove non batte il sole manco per loro e non è poco. È in quel momento che inizia la parte meno penosa del tuo viaggio.

Ho iniziato a ridere di me e della tubercolosi e nello stesso istante è passata anche la paura. E con la mente e il cuore liberi dalla paura sono riuscita finalmente a ragionare, a pianificare i passi da fare, a scegliere le persone con cui farli. La prima volta che mi hanno prospettato la necessità di un intervento tanto risolutivo quanto invasivo come la pneumonectomia totale ero ricoverata da poco più di un mese ed è stato talmente scioccante da farmi rifiutare per parecchi mesi anche solo l’idea di dover realmente affrontare quel passaggio. Non volevo più parlare con il chirurgo toracico che mi aveva sbattuto in faccia la realtà senza neppure una pacca sulla spalla, non volevo parlare con il suo primario che nella mia mente non poteva essere altro che un mostro per aver cresciuto un insensibile di medico come quello. Poi però la malattia cambia e tu cambi con lei. E inizi ad accettare, a scherzare sulla tua condizione, a ragionare lucidamente e razionalmente sulle cose. La paura a poco a poco scompare e ti ritrovi a voler andare tu stesso a parlare con quei chirurghi per capire quali sono le proposte migliori e le soluzioni possibili. Sono andata da quel mostro di primario – che un mostro lo è stato davvero, ma di umanità e competenza – e mi sono affidata a lui e alla sua straordinaria équipe per un intervento che in effetti si è rivelato essere l’unica via per ricominciare a vivere. Terminata la terapia antitubercolare e appurata la mia completa guarigione con l’ennesima broncoscopia – ahi, che odio per la bronco! – Ho iniziato la breve trafila degli esami preoperatori che mi ha portata, nel giro di tre mesi, in una sala del blocco operatorio dell’Ospedale di Alessandria per fare i conti definitivamente con quell’organo putrescente che mi tenevo dentro come una bomba a orologeria pronta a esplodere e deflagrare tutto ciò che le stava attorno.

Il 07 aprile 2017 mi hanno diagnosticato una tubercolosi farmaco sensibile con polmone destro distrutto. Il 19 luglio 2018 mi sono addormentata con quel polmone ancora lì al suo posto e il giorno successivo mi sono risvegliata senza più quell’inquilino ormai da troppo tempo indesiderato. Il 13 agosto 2018 ho percorso per l’ultima volta il corridoio dell’ospedale verso l’uscita con una valigia in mano.

493 giorni sono trascorsi da quel tiepido venerdì di aprile a quel caldo lunedì di agosto. Nulla è più stato uguale da allora. La mia vita prima della tubercolosi è ormai solo un ricordo di ciò che sono stata per 38 anni. Erano queste, il 31 dicembre 2018, le mie parole sotto una foto della cicatrice che mostro senza vergogna: “Penso a me 365 giorni fa e vedo una persona profondamente diversa. Né peggiore né migliore. Semplicemente diversa. Piena di punti interrogativi e paure – terrore, forse, sarebbe più corretto e onesto – per questo 2018 che si prospettava tutto fuorché facile. E che non avevo per niente voglia di vivere. Così è stato, tutto fuorché facile. Ma dopo averlo affrontato e vissuto – vissuto davvero, anche nei momenti di più grande sconforto – posso serenamente affermare che se potessi cambiare qualcosa nella mia vita, sarebbero altri gli anni che vorrei non aver vissuto o che vorrei poter modificare. Gli anni le cui cicatrici non si vedono, ma bruciano, tirano, fanno male nonostante il tempo e le distanze. Gli anni che si sono portati via, senza possibilità di scelta, pezzi di cuore. Gli anni in cui, pur con due polmoni, respirare era infinitamente più faticoso di adesso. Questo 2018 – con tutto il carico di cose, emozioni e persone tra le più disparate che mi ha lasciato, oltre a quello che si è portato via – me lo porto con orgoglio sulla pelle. Tutto è racchiuso qui”. Non potrei trovare parole più appropriate per descrivere questa diversità acquisita e questa consapevolezza di me che mi portano a essere orgogliosa della persona che sono diventata dopo aver navigato nella tempesta della mia malattia.

Qualcuno riferendosi alla conclusione del suo personale vissuto di coercizione e privazione della libertà – iniziato anch’esso, caso vuole, in un lontano 7 aprile del secolo scorso – ha scritto 9 parole, che hanno accompagnato con forza i miei giorni di rinascita:

“Hai navigato, sei giunto in porto: ritorno alla vita.”

 

 

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