“DUE ESTATI FA….NON C’ERI CHE TU…TBC” di Antonella Isabella Valenzi

06/06/2022

Mi chiamo Antonella, ho 34 anni e sono una farmacista, nonché mamma di un giovanotto che a breve compie 18 anni, e vorrei raccontare la mia storia con la tubercolosi.

Nell’ottobre del 2017 mi vidi costretta a portare mio figlio, all’epoca tredicenne, in ospedale dove venne ricoverato in day hospital per una sospetta nefrite, rivelatasi poi fortunatamente un falso allarme.

Nel corso di quella mattinata trascorsa nel reparto di pediatria, venne ricoverato, nella stessa stanza di mio figlio, un tenero bambino che avrà avuto all’incirca un paio di anni. Il bimbo piangeva insistentemente e aveva una forte tosse grassa che non gli dava pace associata a febbre alta.

I sintomi che presentava il bimbo, per le mie seppur limitate conoscenze, mi insospettirono e pensai che potesse trattarsi di qualche malattia infettiva, tant’è che cercai di evitare qualsiasi nostro tipo di contatto o vicinanza. Ma nonostante le nostre attenzioni, l’ambiente era pur sempre quello di una stanza d’ospedale abbastanza ristretta, non arieggiata, e l’aria che respiravamo era la stessa per tutti con i risultati si si sono poi presentati da lì a breve.

Dopo aver passato l’intera giornata in ospedale, nel tardo pomeriggio mio figlio venne dimesso con referto negativo per quanto riguardava la sospetta nefrite e tornammo a casa alleggeriti dalla buona notizia. Naturalmente, né io né la mia famiglia pensammo più a quella giornata in ospedale e a quel bambino nel letto accanto a quello di mio figlio. Finché, qualche giorno dopo, mentre ero al lavoro, ricevetti una telefonata dall’ospedale nella quale mi veniva riferito che era stato riscontrato un caso di tubercolosi nella stanza dove era stato ricoverato mio figlio, e che per questo motivo ci saremmo dovuti recare nuovamente in ospedale per effettuare il test di Mantoux.

Immediatamente mi risuonarono in testa i colpi di tosse di quel bambino e scoppiai a piangere mentre ero ancora al telefono, con la dottoressa che cercava di tranquillizzarmi dicendomi che fare il test era solo una prassi e che, essendo stati poco tempo a contatto con il bambino, sicuramente sarebbe andato tutto bene. Ma la mia paura era tanta, ed ero sempre più convinta che la mia brutta sensazione stesse per trasformarsi in una cruda realtà.

Ero preoccupata soprattutto per mio figlio e amareggiata perché avevamo scongiurato la nefrite ma probabilmente ci saremmo ritrovati di fronte a qualcosa di più grave e complicato da “combattere”. Ero arrabbiata con i medici del reparto, per come avevano gestito l’arrivo di quel bambino, per non aver preso precauzioni anticipatamente mettendolo in isolamento per via di quella tosse insistente e senza minimamente prendere in considerazione che poteva trattarsi di una patologia contagiosa.

Tornai a casa, raccontai della telefonata a mia madre, la quale si preoccupò quanto me, e informai mio figlio che dovevamo andare in ospedale a fare un controllo, senza però raccontargli la telefonata e senza spiegargli il motivo.

Quando ci recammo in ospedale per il test, mio figlio, che ha paura degli aghi, svenne tra le mie braccia, ma fortunatamente, con l’aiuto di un’infermiera, si riprese immediatamente.

I due giorni successivi furono interminabili. Controllavo continuamente il mio braccio, e soprattutto quello di mio figlio, che chiedeva insistentemente cosa fosse quel test e perché l’avessi fatto anch’io. A questo punto mi vidi costretta a dire una bugia per non farlo preoccupare e gli dissi che era un test che si fa quando in ospedale si sta in camera con altre persone, senza specificargli altro.

Passate le fatidiche 48 ore, tornammo in ospedale dove ci comunicarono che il risultato era negativo. Ovviamente tirai un sospiro di sollievo, incosciente del fatto che l’incubazione del batterio potesse non essere ancora avvenuta. Mi dissero che saremmo dovuti ritornare dopo un paio di mesi per un secondo controllo, ma senza fornirci altre spiegazioni.

Trascorsi i due mesi, non mi preoccupai più di andare a ripetere il test anche perché non avevo ricevuto nessun tipo di comunicazione, nemmeno una telefonata, da parte dell’ospedale che mi precisasse quando potevamo andare a fare l’ulteriore controllo. Perciò, per quanto mi riguardava, l’incubo era terminato due mesi prima.

Il mio errore fu di non documentarmi in maniera approfondita sulla tubercolosi. Avevo letto il minimo indispensabile durante i primi giorni di apprensione, ma dopo l’esito negativo del test non avevo più approfondito pensando che il problema non mi avrebbe più sfiorato.

Passarono due anni e all’inizio del 2019 iniziai ad avere episodi sporadici di stati influenzali, un po’ di tosse, febbricola, raffreddore e spossatezza, che però attribuivo ai ritmi lavorativi pesanti che stavo affrontando in quel periodo. In effetti, assumendo qualche antinfiammatorio associato a qualche antipiretico, i sintomi sembravano scomparire per poi ripresentarsi, da gennaio ad agosto, con una frequenza più o meno trimestrale.

Ad agosto, però, la situazione si aggravò ulteriormente. La stanchezza era eccessiva, la tosse perenne (che in piena estate non è certo una cosa normale), ma soprattutto avevo una forte secrezione di muchi dalla bocca che provavo a curare con antibiotici ma che non riuscivo a eliminare.

Attribuivo sempre il tutto ai miei eccessivi ritmi di vita. In quel mese in particolare facevo turni diurni, notturni e nel poco tempo libero, essendo estate, cercavo di uscire e andare al mare, quindi riposavo veramente poco. Diciamo che passai l’intero mese di agosto dormendo circa 4/5 ore a notte e di giorno passavo dai 30/35 gradi della temperatura ambiente all’aperto ai 18/20 gradi degli ambienti climatizzati come al lavoro, e di conseguenza gli sbalzi termici erano micidiali.

Chiamai mia madre per riferirle di questo mio malessere e anche lei mi rispose che tutto probabilmente dipendeva dalla stanchezza accumulata, ma dentro di me avevo la sensazione che non potesse essere solo quello, anche perché avevo sempre quella tosse e quei muchi che non se ne andavano via.

Nel frattempo contattai il mio medico, che però era in ferie e mi diede poco retta. Io provai ad insistere sul fatto che avevo tosse continua e muchi e la febbricola perenne, ma lui mi rispose semplicemente: “La febbricola non è febbre”. In ogni caso si svincolò, prescrivendomi un antibiotico associato al paracetamolo. Lo richiamai a fine ciclo comunicandogli che non avevo avuto nessun miglioramento, e lui, ancora in ferie, mi disse di andare dal suo sostituto perché non poteva essere disponibile.

Al che, demoralizzata per il suo atteggiamento, mi rivolsi ad una mia amica, anch’essa medico, la quale, con la massima disponibilità, mi visitò. Mi controllò le spalle e sospettò una brutta bronchite consigliandomi di fare un’ulteriore terapia antibiotica mirata. Ma purtroppo neanche questa terapia diede frutti.

Era ormai la seconda metà di agosto e mi presi quattro giorni di ferie, proprio per staccare un po’ la spina. Anche perché, durante l’ultimo turno notturno, avevo lavorato con la febbre e il giorno dopo mi ero sentita male.

Volevo godermi quei quattro giorni di ferie per andare al mare e rilassarmi in spiaggia, con la speranza che quel malessere potesse passare, ma non mi reggevo in piedi e passai tre di quei quattro giorni tra letto e divano. Con gran dispiacere mio, ma soprattutto di mio figlio che aspettava con ansia quei giorni per potersi godere un po’ di mare in tranquillità.

Arrivata al quarto giorno di quelle mie brevissime ferie, mi sentivo stanca e spossata ma, non avendo febbre, decisi comunque di andare al mare. Ma non appena entrai in acqua, iniziai ad avere difficoltà respiratorie; mi mancava il respiro e ogni bracciata mi sembrava uno sforzo immane. Uscii, ma non appena mi sdraiai sul telo mi resi conto che mi stava risalendo la febbre e a malincuore decisi di tornarmene a casa. Effettivamente, una volta a casa, mi misurai la temperatura, e avevo la solita febbricola a 37,3.

A questo punto, di pari pensiero con la mia amica medico, decidemmo che era il caso di fare un RX toracica per indagare meglio. Il pomeriggio stesso cercai di farla ma l’impresa si rivelò un’odissea. Tutti gli studi radiologici sembravano essere in ferie, ma, dopo vari giri per la città, riuscii a trovarne uno aperto dove finalmente mi fecero la radiografia.

Lo stesso tecnico radiologo si rese conto che c’era qualcosa che non andava e mi fece parlare immediatamente con il medico dello studio il quale, senza fornirmi ulteriori spiegazioni, mi consigliò soltanto di fare due esami: test di Mantoux ed esame colturale dell’espettorato.

Apprestandomi alla macchina, guardavo quel RX e vedevo un enorme macchia nera, ma nemmeno quegli esami da fare mi riportarono alla mente la tubercolosi. Presa dall’ansia pensavo al peggio: per me quella macchia nera era un tumore!

Tornata a casa iniziai a documentarmi e ripresi in mano qualche libro dell’università per cercare di capire quando venissero prescritti questi esami e l’unico caso in effetti risultava essere la tubercolosi.

Informai mia mamma che avevo una grande macchia al polmone sinistro e che questo non era sicuramente un buon segno, che avrei dovuto fare quegli esami ma che li reputavo superflui in quanto sicura dentro di me che fosse qualcosa di diverso.

Chiamai il mio medico curante, lo informai che avevo fatto l’RX e che il radiologo mi aveva prescritto quegli ulteriori esami. Fu a quel punto che credo si sia sentito per la prima volta in difetto nei miei confronti; percepivo la sua preoccupazione per non avermi ascoltata da subito e mi indirizzò immediatamente a un “luminare” della TBC: il dottor Lorenzo Surace.

Mi permetto di citare il Dottor Surace perché oltre ad essere un vero e proprio luminare, come definito dal mio medico curante, ha avuto con me, ma credo con tutti i suoi pazienti, un approccio umano veramente fantastico, direi quasi paterno diventando per me un vero e proprio punto di riferimento.

Feci la mia prima chiamata al dottore Surace verso le 14:30 e già alle 16:00 ero nel suo studio per la mia visita. Analizzando il referto, anche lui sospettò subito che si trattasse di tubercolosi e mi fece seduta stante il test di Mantoux e l’esame dell’espettorato. Il giorno dopo tornai da lui e mi disse che l’espettorato aveva confermato che si trattava di TBC.

La mia reazione fu un pianto interminabile che gettò mia madre nella disperazione più totale. Ricevere una notizia del genere è sconvolgente, soprattutto per la consapevolezza che si è in presenza di una malattia contagiosa.

Il dottore dal canto suo cercò di rassicurarmi. Mi disse di non preoccuparmi perché ai giorni nostri la tubercolosi è una malattia curabile; si trattava certo di una cura lunga, ma che con dedizione, pazienza e responsabilità, si sarebbe risolto tutto.

Mi disse che andava fatta una lista delle persone con cui ero stata a contatto e a quel punto iniziò per me un incubo infernale! Era fine agosto ed io, durante il periodo estivo, avevo visto tantissima gente. Colleghi, famigliari, amici… il mio pensiero andava anche alle persone più lontane che avessi potuto incontrare in quel periodo.

Passai giorni e giorni a piangere; la paura e anche la vergogna erano diventate parte di me, erano nella mia testa. Sì, provavo vergogna ad avere la tubercolosi, mi sentivo una nullità e avevo timore dei giudizi della gente. E in tanti, in effetti, non persero tempo a confermare i miei timori.

Mia mamma avvisò tutti i parenti, contattando soltanto chi fosse stato realmente in contatto con me, ma iniziò una vera e propria battaglia all’ignoranza!

Tante persone con cui non avevo avuto contatti, che perciò non facevano parte della mia lista e che di conseguenza non avevo avvisato, senza neanche minimamente informarsi si presentarono in ospedale, con familiari al seguito, a farsi il test di Mantoux dichiarando di essere state in contatto con me semplicemente perché avevano incontrato uno dei miei contatti reali. La paura è padrona dell’ignoranza!

A tutte le mie ansie, la paura per me e la paura per mio figlio e i miei cari, si aggiunse la rabbia provocata da tutte queste sceneggiate e da tutte le parole dette in giro sul mio conto! Provavo un dispiacere enorme per la mia famiglia.

Mio padre, che lavora all’estero, partì qualche giorno dopo la scoperta della mia malattia. Mi fu permesso di salutarlo solo da lontano con un ciao e con le mascherine (che non erano quotidianità e normalità come lo sono oggi), le quali ci permettevano di vedere solo le lacrime scendere dai nostri occhi. La voglia di abbracciarlo era tanta, ma non potevo farlo.

Mia mamma mi portava ogni giorno da mangiare in camera, cercando di nascondere il suo malessere, ma leggevo nei suoi occhi la sua sofferenza e le sue paure per la mia incolumità!

Mio figlio, il mio amore unico, risultò positivo anche lui al test di Mantoux… anche se fortunatamente in modo silente… e di conseguenza dovette sottoporsi anche lui alla profilassi.

Avevo un male al cuore nel vederlo prendere quelle medicine ogni giorno, ad orario, e andare a scuola con la consapevolezza che prima o poi qualche suo compagno gli avrebbe creato qualche disagio. E così fu: alcuni dei compagni lo allontanarono per paura che lui potesse contagiarli.

Stavo male quando mi raccontava di questi episodi, mi arrabbiavo con me stessa e mi chiedevo perché Dio non avesse scelto per me un tumore (quello che mi faceva tanta paura dopo il primo RX) al posto della tubercolosi. In quel modo avrei sofferto solo io e non sarei stata giudicata. In quel momento avrei preferito un male più grave a tutta quella sofferenza psicologica.

Confessai la stessa cosa anche al dottor Surace, il quale, con una dolcezza infinita, mi disse che non dovevo nemmeno pensarla una cosa del genere. Lui stesso, a chi ha un tumore, augurerebbe di avere la tubercolosi perché c’è modo di curarla, e mi disse che non dovevo preoccuparmi del giudizio degli altri. Soprattutto dovevo evitare di colpevolizzarmi nel caso avessi contagiato qualcuno, perché anche per quel qualcuno la cura era lì, a disposizione di tutti.

Le sue parole mi fecero sentire piccola piccola, ma mi diedero il coraggio per affrontare la situazione con un po’ più di serenità anche se devo ammettere che nei giorni in cui dovevo recarmi in ospedale per i consueti controlli, vedere che ero l’unica in mezzo alla gente con la mascherina, mi faceva sentire “sporca”, tant’è che camminavo a testa bassa e a passo spedito, per evitare gli sguardi delle persone che incontravo.

Tutto questo, per me, era umiliante!

Ogni sera andavo a dormire con la speranza che al risveglio fosse tutto un brutto sogno, ma la mattina mi svegliavo con la solita angoscia e la solita ansia. Credo che se avessi potuto cancellare quell’anno, lo avrei fatto senza pensarci.

Passavano i giorni, e i sintomi pian piano si attenuavano sempre di più. La terapia iniziava a dare i suoi frutti e fisicamente mi sentivo molto meglio.

Fortunatamente, tra tutti i disturbi collaterali che poteva dare la TBC, la perdita di peso non fu il mio caso. Anzi, al contrario, con mia madre (ah le donne del sud!) che mi assisteva, misi su qualche chilo.

La mia paura era invece che quel solco al polmone, causato dal batterio, non si rimarginasse più. Infatti avevo un’escavazione di quasi 5 cm, bella profonda, mi dissero, come se ne vedevano poche.

Addirittura lo pneumologo mi confessò che lui non aveva mai riscontrato un caso del genere in un individuo e tutto ciò non mi rassicurava affatto. Piano piano, però, quel solco diventava sempre più piccolo.

Al tempo stesso cresceva in me il timore di non poter ritornare alla mia vita di prima, di non riuscire più a respirare bene, di non poter fare gli sforzi e l’attività fisica che facevo di consueto e soprattutto che, una volta terminato il mio periodo di isolamento, la gente mi avrebbe comunque emarginata, messa all’angolo.

Credevo che quel fruscio che sentivo quando respiravo non mi avrebbe più lasciata, ma fortunatamente, ad oggi, credo di non avere più strascichi.

Durante la terapia, non avevo ben capito che la cura e l’isolamento dovessero durare così tanti mesi, tant’è vero che ogni mese chiedevo al dottore se finalmente potevo ritornare libera, ma così non fu per parecchio tempo. Passarono infatti sei mesi prima che l’esame dell’espettorato desse esito negativo.

Ogni volta che mandavo l’espettorato in laboratorio e mi arrivava l’esito positivo, il mio umore scendeva di qualche gradino.

Credo che la parte più brutta e difficile da affrontare di tutto l’iter di questa patologia sia stato l’isolamento.

Fortunatamente mi venne concesso di isolarmi a casa poiché disponevo di una stanza tutta per me con un bagno personale in camera. Questa forse è stata l’unica nota positiva: il poter essere a casa mia, con mio figlio, che pur vivendo nella rimanente parte della casa era comunque vicino a me.

Probabilmente, se avessi dovuto affrontare l’isolamento in una stanza di ospedale, la mia situazione psicologica sarebbe certamente precipitata.

In ogni caso ho avuto un crollo psicologico non indifferente per via dell’isolamento dal resto del mondo. Sono una persona molto solare e di compagnia e svolgendo un lavoro che mi tiene costantemente in mezzo alla gente, per me è stata veramente un’esperienza devastante.

Nel periodo di isolamento fisico obbligato, iniziai ad isolarmi anche mentalmente. Da quel momento in poi non fui più la stessa persona, iniziai a vedere la gente con un’ottica diversa. Iniziai a valutare chi mi era rimasto vicino realmente con il cuore e chi, invece, mi contattava solo per faccia lavata, per curiosità o per deridere ciò che mi era successo. Furono poche le persone che mi rimasero veramente vicine e, in una situazione del genere, anche un semplice messaggio di buongiorno per me era speciale. Nell’affrontare questa battaglia mi sono resa conto di essere più forte di quanto immaginassi.

Sono una donna molto emotiva e sensibile, ma sono riuscita a venir fuori da questa situazione a testa alta!

Come si può capire dalle prime righe che ho scritto e dal mio racconto, sono una mamma single, diventata mamma adolescente, quando avevo solo 16 anni! Quella è stata la mia prima lotta contro i pregiudizi, l’ignoranza e la poca cultura del paese in cui vivo.

Già all’epoca ho vissuto l’isolamento, l’allontanamento, la pressione psicologica, la depressione, ma sono riuscita a combatterli con la mia sola forza di volontà, senza ricorrere a nessuna terapia. Anzi, forse la mia terapia è stata proprio mio figlio, vederlo nascere e crescere sono state la mia forza. Dargli una vita serena, una buona educazione e il meglio possibile per lui, sono stati i miei obiettivi di vita che mi hanno fatto superare tutto il resto.

Quindi vi lascio immaginare come il ritrovarmi, a distanza di anni, in un’altra situazione particolare non sia stato per nulla semplice, ma l’essere riuscita a risollevarmi nuovamente e a testa alta mi ha fatto pensare che allora, in fondo, sono una donna forte.

La vita ci riserva delle battaglie, a chi più semplici, a chi più dure, e sta a noi trovare la forza di affrontarle nel migliore dei modi.

Ringrazio la mia famiglia per essere stata sempre al mio fianco! Devo confessarvi che ho una mamma, un padre e un fratello speciali e che senza di loro forse non sarei riuscita ad affrontare le mie battaglie.

Ringrazio la mia amica dottoressa che si è rivelata un angelo dal primo istante: mi è stata vicina ogni singolo giorno, durante e anche dopo la fine della malattia. Un esempio di umanità, vicina agli amici ed ai propri pazienti, una vera amica e un medico esemplare!

Ringrazio il dottor Lorenzo Surace, esempio di competenza, dedizione e disponibilità: un medico di cui tutti avremmo bisogno, presente tuttora, a distanza di anni, per qualsiasi mio dubbio e perplessità sui malesseri che riscontro anche in ambiti non direttamente connessi alla tubercolosi.

Ed infine ringrazio mio figlio, per essere stato in grado di superare, con la capacità che solo un adulto può dimostrare, ogni singolo commento negativo, ogni singola delusione, ogni singolo atto di ingiustizia. Fin da piccolo si è dimostrato un bambino intelligente, consapevole di avere una situazione familiare diversa dagli altri, ed esserne comunque felice e grato. Ha affrontato la mia malattia standomi vicino moralmente, facendomi sentire la sua costante presenza, con un “ti voglio bene mamma”, con un cuore inviatomi sul cellulare in piena notte, con le parole, quelle parole che dette da un figlio ti fanno tremare il cuore di tenerezza e gioia, e ti fanno ringraziare la vita per il meraviglioso dono che ti ha dato! Il fatto di essere diventata mamma in una situazione che all’epoca poteva sembrarmi inopportuna, si è rivelata il senso di tutta la mia vita, perché è grazie a lui e per lui che ho affrontato, e continuerò ad affrontare, tutte le battaglie che si presenteranno sul mio cammino.

La tubercolosi ti ha rubato l’aria dai polmoni… ma la scienza e la ricerca hanno fatto in modo di restituirtela.”