“I CAVALLI DI TEX” di Valeria Tonini

30/05/2022

La casa di mia nonna era fuori Porta Saragozza, nella prima periferia di Bologna. Una periferia ridente, dove le case popolari, che il Comune dava in affitto a poche lire alle famiglie bisognose, erano circondate da prati e grandi cortili dove i bambini potevano giocare. A pochi passi c’erano i parchi, villa delle Rose e villa Spada e dal Meloncello, se si voleva fare una passeggiata, si poteva salire sotto i portici fino a San Luca. La famiglia di mia nonna, con i suoi tredici figli, di cui ben dieci femmine, era una famiglia di dimensioni fuori dal comune e sicuramente troppo abbondante rispetto ai pochi metri quadrati di quella casa. Quando sono nata io però le cose erano già cambiate. Mia nonna era rimasta vedova, molti figli si erano già sposati ed erano rimasti in casa solo i tre più piccoli. Mi sono sempre chiesta come facessero a stare in quindici in quelle tre stanze minuscole. Dai racconti di mia madre più che stanze si potevano definire camerate, dove i bambini dormivano insieme in grandi lettoni, chiacchierando per ore prima di chiudere gli occhi. Quella mancanza di spazi, non era stata però vissuta come una privazione, ma con gioia, e anche i figli già sposati non vedevano l’ora, appena era possibile, di tornare lì, in quella casa, con le loro nuove famiglie, per stare ancora tutti insieme. La casa dei miei genitori era a poche centinaia di metri da quella della nonna e quando ero bambina quasi tutta la giornata la passavo lì. Io e la mamma ci andavamo al mattino e così facevano anche le altre zie, che abitavano tutte nei dintorni e che erano quasi tutte casalinghe. E mentre le mamme parlavano o facevano da mangiare, e a volte anche litigavano, noi cugini giocavamo. Nella bella stagione, stavamo in terrazza, una terrazza assolata, dove i gerani della zia Rosanna erano sempre fioriti. E come se non bastasse, avevamo la basilica di San Luca proprio lì, di fronte a noi.

In quella casa che oggi non c’è più, ho trascorso la mia infanzia. Ed è lì che conservo i miei ricordi più belli. È stata la casa in cui sono stata più felice, forse l’unica in cui lo sono stata veramente. Una casa di giovani, di bambini, piena di risate, di giochi, di allegria. Una casa di gente semplice, ma felice nella sua semplicità. Felice nella facilità dei propri motivi di appagamento. Una semplicità che io purtroppo ho presto perduto… Era una casa piena di affetto e questo affetto me lo sentivo addosso, riempiva le mie giornate, mi faceva sentire protetta. Tutto questo affetto ha senz’altro contribuito a fare di me quello che sono diventata. Una persona sicura, che crede negli altri, che ha mantenuto la fiducia negli altri. Nonostante la vita. Nonostante tutto…

Quando la zia Rosanna si sposò, lo zio Armandino venne ad abitare a casa della nonna e io ne fui strafelice. Non avevano la disponibilità economica per andare ad abitare in una casa tutta loro, e quindi decisero che per il momento si sarebbero sistemati lì. A quei tempi, non sapevano ancora che quel breve periodo sarebbe durato tutta la loro vita. Lo zio tornava a casa dal lavoro nel tardo pomeriggio. Lavorava come falegname in una segheria e poiché, a sentir lui, era allergico alle polveri del legno, tossiva continuamente. Quando si avvicinava l’ora del suo arrivo, io cominciavo a gironzolare dietro alla porta di ingresso e quando finalmente sentivo i suoi colpi di tosse lungo le scale, gli correvo incontro. Lui appoggiava la borsa con gli attrezzi all’entrata, si toglieva la tuta da lavoro e subito ci mettevamo sul tavolo di formica gialla della cucina a disegnare. Ci restavamo fino all’ora di cena, quando la zia ci diceva che dovevamo sgomberare perché doveva apparecchiare. Sdraiata su quel tavolo, mentre lo zio disegnava per me, ho passato le ore più belle della mia vita. Era bravissimo con quella matita, così bravo che a un certo punto mi sembrava di entrare anch’io dentro a quel foglio. Prima di cominciare mi chiedeva: “Che cosa vogliamo disegnare oggi?”. E io rispondevo: Biancaneve o Cenerentola o la Bella Addormentata. Lui subito mi accontentava, ma poco dopo, senza che quasi me ne accorgessi, cominciava a disegnare cavalli. Perché i cavalli erano il suo forte, i cavalli di Tex, quel maledetto giornalino che io odiavo. Lo comprava tutte le settimane e il sabato pomeriggio se lo leggeva tutto d’un fiato, fino all’ultima riga. Lo leggeva sdraiato sul letto, e spesso anch’io mi sdraiavo accanto a lui. Lui mi mostrava le figure e mi raccontava la storia, ma poco dopo io mi rompevo di ascoltare. A me piacevano le fiabe con le fate e le principesse, e non tutti quei cowboy a cavallo che sparavano con le pistole. Eppure adesso, dopo tanti anni, ho nostalgia di quei momenti, e anche di quel giornalino con quella strana forma a striscia da cui lo zio copiava i cavalli. Eh già, i cavalli! Era bravissimo a disegnarli. Prima il muso, poi le orecchie, poi il corpo. E infine le zampe. Quando disegnava le zampe sembrava che i cavalli fossero vivi e stessero correndo e da un momento all’altro potessero scappare via e uscire addirittura dal foglio. Mentre disegnava tossiva. Tossiva continuamente. E tossiva anche mentre mangiava, mentre camminava, mentre dormiva. Una tosse che diventava giorno dopo giorno sempre più insistente, talvolta con accessi così violenti che sembrava gli sconquassassero la gabbia toracica costringendolo a portarsi la mano al petto per il dolore. Quando i colpi erano così forti, il fazzoletto che si portava alla bocca si macchiava di sangue. Sangue rosso, che talvolta gli rimaneva sulle labbra e io gli dicevo ridendo che sembrava Dracula. In realtà, anche se ridevo, a me tutto quel sangue faceva un po’ paura, ma lo zio mi rassicurava dicendo che non era niente. Tutta colpa di quelle maledette polveri del legno che era costretto a respirare. Io gli chiedevo: “Ma perché allora non cambi lavoro?”. E lui mi rispondeva: “Credi che sia così facile cambiare lavoro? Quando se ne ha uno, bisogna tenerselo ben stretto. E ritenersi fortunati”.

Un giorno lo zio tornò a casa prima del solito, ma invece di venire a giocare con me, si chiuse in camera con la zia. La nonna mi portò in terrazza a innaffiare i gerani e dopo aver innaffiato i gerani andammo a salutare i vicini di casa. Quando tornammo lo zio era ancora in camera, ma con la luce spenta. Dormiva, o forse faceva finta di dormire. La zia invece era chiusa in bagno con la mamma. Piangeva. Forse anche la mamma piangeva. Non capivo cosa stesse succedendo, sicuramente qualcosa di grave. Poi la mamma mi disse che dovevamo tornare a casa. Le chiesi perché ma non mi rispose. Aveva gli occhi rossi. Mentre camminavamo cominciò a spiegarmi. Ricordo che era inverno e faceva molto freddo. Un freddo gelido che penetrava nelle ossa e che in quel momento sembrava ancora più insopportabile. Una nuvola di vapore le usciva dalla bocca quasi volesse nascondere le sue parole.

Domani lo zio deve andare all’ospedale. Credo che ci starà un bel po’.” “Ma perché?” chiesi fermandomi di colpo e guardandola negli occhi. “Ha la tubercolosi”. “E che cos’è?”. “Una malattia dei polmoni. Una malattia contagiosa. D’ora in poi non puoi più stargli vicino perché potresti ammalarti anche tu”.

Non capii subito cosa significasse quel “non puoi più stargli vicino”. Lo capii soltanto quando lo zio tornò a casa dopo molti mesi passati in “sanatorio”. Da quel momento in poi la casa della nonna non fu più la casa allegra che conoscevo, quella in cui ruotavano i ben tredici figli e relative famiglie, quella in cui tutti noi non vedevamo l’ora di arrivare per stare insieme. Per ridere insieme. Diventò la casa in cui tutti avevano paura di ammalarsi. Adesso io e la mamma non stavamo più lì tutto il giorno come prima. E anche le mie zie venivano molto più di rado. Erano finiti i pomeriggi di disegni sul tavolo di cucina. Erano finite le letture di Tex sul letto dello zio. Erano finite le allegre tavolate in cui tutti ridevano a crepapelle. Lo zio adesso girava per la casa con la mascherina e dovevamo stargli tutti a debita distanza. Lui mangiava prima di noi o dopo di noi. Mai insieme a noi. Quando eravamo a tavola veniva a salutarci, ma sempre con la mascherina e solo qualche minuto, per poi rinchiudersi di nuovo nella sua stanza. Il suo bicchiere, le sue posate e il suo piatto erano tenuti a parte e lavati separatamente. E così anche la sua biancheria, che veniva chiusa in un sacchetto di plastica in terrazza. Ero stata abituata che la sera, prima di tornare a casa mia, abbracciavo e baciavo tutti. Prima la nonna, poi la zia Rosanna e poi gli zii. Ma adesso, quando arrivavo allo zio, non potevo più baciarlo. La mamma mi aveva detto che se volevo andare ancora a casa della nonna dovevo fare quello che diceva lei. Dovevo stare lontana dallo zio e niente baci. Quando arrivavo a lui venivo presa dal panico e non sapevo cosa fare. Avrei voluto saltargli al collo e baciarmelo tutto come facevo un tempo, ma poi vedevo la mamma che mi guardava senza farsi vedere. E allora cominciavo a parlare e a dire cose sciocche, tante cose sciocche, una dietro l’altra, per poi andarmene facendo finta che nella foga del discorso, mi fossi dimenticata di baciarlo. Ma non mi ero dimenticata. E lo zio mi guardava dietro quella sua mascherina e mi sorrideva con quel suo sorriso buono, facendo finta di crederci…

Frequentavo la seconda elementare, quando a scuola mi fecero la schermografia. A quei tempi noi scolari venivamo messi in fila in una grande stanza e quando arrivava il nostro turno dovevamo salire su una scaletta, abbracciare l’apparecchio e a quel punto veniva scattata le lastra. Erano gli anni Sessanta e non si dava molta importanza alla protezione da raggi. L’importante era scoprire quella maledetta malattia, e anche in me questa venne scoperta. Chiamarono mia madre, le dissero che dovevo rimanere a casa da scuola e iniziare subito una terapia. Poi nel tempo si sarebbe deciso l’eventuale necessità di misure più drastiche. A me dissero che avevo la polmonite e che dovevo stare a casa per non prendere freddo. La mamma era molto preoccupata e non capivo perché. Mi riempiva di spremute, uova sbattute con lo zucchero e vitamine. Se avessi mangiato tutto quello che mi preparava in breve sarei diventata cento chili. Solo dopo molto tempo, ho saputo che non si trattava di polmonite, ma del complesso primario, il primo marchio della tubercolosi, quando la malattia comincia ad insediarsi dentro di noi. In quel momento, senza che io nemmeno lo sapessi, era in atto dentro di me una battaglia che avrei potuto vincere o perdere. Il bacillo di Koch era penetrato in me, un nemico invisibile che senza farsi notare stava cercando di insediarsi, di moltiplicarsi, di diffondersi nel mio corpo e sarebbe potuto arrivare fino al punto di uccidermi. Se avesse vinto la partita, la mia vita sarebbe diventata un inferno, proprio come quella dello zio. La vita di un infetto, un contagiato, un appestato. Uno che deve vivere con il volto eternamente coperto da una maschera, rinchiuso in un sanatorio o nella stanza di una casa, emarginato da tutto e da tutti. Uno che non può stare insieme agli altri, ridere con gli altri, mangiare con gli altri, uscire con gli altri, vivere con gli altri, perché gli altri hanno paura di te. Paura di quelle gocce invisibili di saliva che escono dalla tua bocca ogni volta che parli, ogni volta che ridi, invadendo l’aria, il cielo, la terra e il mondo intero. Gocce di saliva rigonfie di batteri che si depositano sugli oggetti, sui mobili, sui vestiti, sui pavimenti, sulle pareti, sulla pelle, dappertutto… Penetrano senza farsi vedere nella bocca di quelli che ti vengono vicino, si insinuano nel loro naso, scendono senza farsi notare nella trachea, nei bronchi, fino a raggiungere i polmoni. E qui si moltiplicano, si nutrono. Sono ghiotti di carne umana. La mangiano voraci fino a trasformarla in una poltiglia simil-caseosa, creando giorno dopo giorno anfratti, buchi, caverne. Arrivano fino a mordere i vasi, a eroderli, provocando emorragie. Arrivano fino al punto di ucciderti… E allora, per paura di tutto questo, quando gli altri sanno che sei malato, cominciano ad evitarti. Non vengono più a casa a trovarti, né ti invitano a casa loro. Non puoi più andare con agli amici al bar, al ristorante, al cinema, in vacanza. Non puoi più baciare tua moglie o tuo marito, stringerlo fra le braccia, amarlo… Per fortuna la battaglia con il Koch la vinsi io. Dopo due mesi ritornai a scuola guarita. Una sottile cicatrice nel mio polmone sinistro è rimasta l’unica testimonianza di quella vittoria.

Quando i medici decretarono che lo zio Armandino non era più contagioso, le cose non tornarono subito come prima. Il marchio dell’appestato gli rimase addosso a lungo. La casa della nonna che prima era presa da assalto da zii e cugini, per molto tempo non fu più la stessa. Sì, pian piano tutti ricominciarono a frequentarla, ma sempre di fretta, facendo attenzione a non toccare niente e, se fosse stato possibile, a non respirare. Quando finalmente ripresero le tavolate della domenica, mia madre e le mie zie facevano sedere noi bambini in modo tale che non stessimo mai troppo vicini allo zio. Il suo bicchiere e le sue posate non venivano mai perse d’occhio per paura che si mescolassero a quelle degli altri. Si stava a tavola solo il tempo necessario e non un minuto di più. Dovevamo lavarci spesso le mani e non portarcele mai alla bocca. Io capivo tutto, e anche lo zio capiva tutto, e anche gli altri capivano tutto, ma tutti facevamo finta di non vedere.

Ma poi, senza che io nemmeno me ne accorgessi, sono passati gli anni. Adesso non ero più la bambina le cui giornate cominciavano e finivano a casa della nonna, ma un’adolescente ansiosa di conoscere il mondo fuori. Le amiche, gli amici, la scuola, i professori, i compagni di scuola, i compiti in classe, gli esami, i giardini, le feste, i brutti voti, le canzoni, la patente, il primo amore… Adesso andavo di rado a casa della nonna. Avevo troppe cose da fare, troppa vita da vivere. Lo zio era tornato al lavoro. La tubercolosi era guarita, o almeno così si credeva, e anche la sua vita sembrava essere rientrata nella normalità. L’incubo del contagio era ormai un lontano ricordo. Adesso aveva di nuovo il suo posto a tavola e le posate e il bicchiere erano le stesse per tutti. Lui e la zia ricominciarono a uscire, cercando di riprendere la loro giovinezza dal punto in cui l’avevano lasciata. Ma purtroppo non era finita lì. Noi, in fondo, siamo sempre convinti che ci sia una sorta di giustizia nella natura. E se le cose vanno male, poi andranno bene. E se andranno ancora male, poi si aggiusteranno. Ma non è così. Per alcuni di noi la vita è una lunga e inesorabile successione di eventi sfortunati, che non danno tregua. Non c’è un perché, è così e basta. E non ci si può far niente. Bisogna prendere quello che viene e tirare avanti… Purtroppo lo zio era uno di questi. La tubercolosi aveva determinato una estesa distruzione del parenchima polmonare che esitò in una fibrosi con un’insufficienza respiratoria, che andò via via aggravandosi. Adesso non tossiva quasi più, però mentre camminava, o quando faceva le scale, si vedeva che faceva fatica a respirare. Le labbra gli diventavano blu e con il passare del tempo quel blu divenne sempre più blu, un blu che pian piano divenne quasi nero, costringendolo a ripetuti ricoveri all’ospedale Sant’Orsola.

Quando mi iscrissi a medicina fu molto contento. “Adesso che abbiamo un medico in famiglia, non ho più paura di niente.” Ogni volta che andavo a trovarlo, mi mostrava le sue prove di funzionalità respiratoria, ma io a quei tempi non ci capivo ancora molto. Peggiorava di giorno in giorno, ma io non me ne accorgevo. O meglio, non volevo accorgermene.

Facevo già il terzo anno di medicina, quando fu ricoverato d’urgenza. Pochi momenti della mia vita sono stati così drammatici come quando entrai nella stanza del polmone d’acciaio. Lo zio era dentro alla macchina, chiuso in una cassa di acciaio da cui spuntava solo la testa. Sembrava uno di quei cassoni con cui negli ospedali vengono portati via i morti. Era già dentro alla cassa da morto, ma per poter morire doveva aspettare il suo turno. La vita gli aveva riservato anche quest’ultimo supplizio. Non gli aveva concesso nemmeno il diritto di andarsene senza dover aspettare. Avrei voluto piangere, urlare e prendere a pugni il cielo, ma poi pensai che per piangere avrei avuto tempo dopo. Adesso non potevo pensare al mio dolore, ma al suo. E allora mi feci forza e cominciai a parlare, sforzandomi di raccontare cose buffe, divertenti. Come se fosse un giorno come tutti gli altri. Come se non fossimo nemmeno lì. Gli parlai del signor Barbari, quello dell’ultimo piano, che passava le giornate in cantina e di quando all’ospedale gli fecero un prelievo di sangue e trovarono vino. E giù a ridere. Poi gli parlai della signora Mucci, che stava sempre in agguato dietro la porta con i suoi giornalini dei Testimoni di Geova e la nonna non aveva il coraggio di dirle di no. E poi tirai fuori l’Elvira, che a quasi novant’anni si dava ancora il rossetto e sperava di trovare marito. Ridevo. E anche lo zio rideva. Andavo tutti i giorni e stavo lì tutto il tempo che mi concedevano di rimanere. Il rumore della macchina era assordante. Me lo sento ancora nelle orecchie. Lo guardavo negli occhi, mentre la macchina gli spremeva la gabbia toracica per dargli quel respiro che non aveva più. E intanto parlavo, parlavo. Ero solo io a parlare, perché lui faceva troppa fatica. Quando capivo che avrebbe voluto rispondere, ma non ci riusciva, subito lo interrompevo e continuavo io. Parlavo senza mai smettere. E ridevo. E anche lo zio rideva. A volte ridavamo così di gusto che ci venivano le lacrime agli occhi. In fondo la vita, è sempre una commedia.

Quel giorno, quando arrivai nella stanza del polmone d’acciaio, lo zio non c’era. La prima cosa che mi venne in mente, furono i suoi cavalli. I cavalli di Tex. La briglia si era sciolta e il cavallo era scappato via. Finalmente libero…

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