31/05/2022
Era il 26 Agosto 2019 quando, inaspettatamente, mi ritrovai in un letto di ospedale… lo stesso ospedale che avevo lasciato qualche ora prima alla fine di un turno di lavoro.
Il mio ricovero nel reparto di Pneumologia è durato 17 giorni.
Durante questo periodo sono stata sottoposta a vari esami, tra cui TAC e PET che, pur non dando un nome al problema, evidenziarono in modo più definito la lesione presente.
Questa massa si presentava di forma ovalare, cavitaria, con un diametro di 10 centimetri, praticamente un’arancia, aveva al suo interno spazi occupati da aria e liquidi, erano presenti lesioni vascolari collaterali e risiedeva nel mio polmone sinistro chissà da quanto tempo.
Nella penombra di quel venerdì sera ogni tanto aprivo gli occhi per guardare il tramonto; dalla mia posizione nella camera potevo vedere fuori dalla finestra.
Il panorama era bellissimo. L’altezza da cui lo osservavo mi permetteva addirittura di scorgere il campanile del Duomo di Siena.
I suoni incessanti dell’aspirazione del drenaggio e del gorgogliatore dell’ossigeno erano proprio come i rumori bianchi che accompagnano il sonno dei bambini.
I farmaci e l’anestesia terminata da poco facevano il resto.
Ho sonnecchiato così dalla sera alla mattina cullata da quei suoni. Brevi riposi senza sogni dei quali mi ricordo poco, ma che, in un lasso di tempo brevissimo, mi portarono al giorno seguente.
La sera del 26 giugno 2020 feci ritorno in camera verso le 19.30.
5 ore di sala operatoria, 3 di intervento.
Di tutto il primo post-operatorio ricorderò per sempre la presenza ed il fastidio del drenaggio toracico.
Un tubo lungo e molto ingombrante nel torace che ti fa compagnia giorno e notte e che non fatica a farsi sentire!!!
Un’altra compagna ‘scomoda’, ma di per sé molto efficace, è la tosse, che devi ma non riesci a fare. Le parole tosse e drenaggio toracico fanno venire subito i brividi a chi li ha provati!
Durante la mia degenza, ho fatto amicizia anche con gli armadietti grazie al mio carattere aperto e subito confidenziale!
Questo mi ha aiutato molto a superare quei piccoli, drammatici momenti in cui non sai a chi confessare quel dolore, quella paura, quello strano fastidio…
Sì, perché a volte non è una sensazione che richiede per forza un intervento sanitario, ma è proprio la necessità di condividere qualcosa che solo chi indossa le tue stesse scarpe può capire perfettamente!!!
Ed è esattamente grazie a questo mio lato estroverso che, rimanere in ospedale senza poter vedere i miei familiari, non mi ha pesato molto.
Durante la mia degenza ho conosciuto Tiziana.
Donna forte, tenace, auto ironica, di una simpatia travolgente.
Di quelle che ne hanno passate molte, ma non mollano mai… di quelle che da anni combattono, lottano e reagiscono anche alle avversità più tenebrose.
Di quelle che, anche se lo stesso giorno dell’anno prima erano lì, per lo stesso tipo di intervento, invece di piangersi addosso, ci scherzano su, pensando che non gli è toccata neppure la stessa stanza!
Tiziana è stata operata la mattina del lunedì successivo.
Abbiamo condiviso 4 giorni e 4 notti in cui le nostre degenze si sono intrecciate.
A Tiziana potevo dirlo che il drenaggio faceva male, cazzo se faceva male; puntava dritto tra le scapole e se ti veniva un mezzo sbadiglio eri rovinata.
A Tiziana potevo dirlo che la ferita quando tirava forte sembrava che ti si aprisse all’improvviso e dovevi tenerti tutta.
A Tiziana potevo dirlo che la tosse, benedetta tosse, quando me la chiedevano di fare era come se mi torturassero per confessare un delitto.
Con Tiziana ci siamo divertite un sacco a ironizzare su quella minestrina in brodo, sempre presente nei nostri menù e mai così speciale da farcela gradire particolarmente.
Con Tiziana abbiamo riso tanto, perché entrambe cariche di autoironia e tanta forza d’animo, ma quando ridevamo troppo ci tenevamo entrambe il torace con le braccia incrociate che da lontano sembravamo unite in un grande abbraccio…
Gli incontri, come quello con Tiziana, fanno davvero bene!
A fine intervento, cosciente, ma ancora intorpidita dall’anestesia, il chirurgo mi aveva rassicurato che ciò che aveva asportato aveva proprio tutto l’aspetto di quello che si attendeva e che sarei potuta stare tranquilla.
Ovviamente intendeva il lato maligno della questione ed era chiaro che fosse la prima cosa che, un paziente nella mia situazione, volesse escludere, il resto sono ‘sciocchezze’…
In realtà tra il ventaglio delle sciocchezze, ve ne sono alcune molto noiose e altrettanto pericolose se non adeguatamente trattate, come l’echinococcosi cistica (alternativa mai esclusa fino in fondo) e contaminazioni batteriche, virali o fungine da microorganismi resistenti o particolarmente aggressivi.
In occasione del secondo controllo post-operatorio mi avrebbero finalmente consegnato il risultato dell’istologico.
Fino a quel momento l’esame istologico non aveva costituito per me motivo di particolare angoscia.
Ho iniziato a misurarmi la temperatura quasi per caso, su suggerimento del mio curante che, venuto a trovarmi il giorno dopo la dimissione, mi suggerì, per scrupolo almeno la sera, di tenermi monitorata.
In ospedale mai avevo avuto febbre e del resto ero sotto terapia antibiotica, ma a casa meglio un controllo in più.
La prima volta che me la misurai fu un venerdì sera, due giorni dopo essere tornata. Inaspettatamente il termometro segnava 37,9°C.
Non volli dare troppo peso a quel valore.
Il pomeriggio mi dedicavo a brevi passeggiate in fondo al frutteto, esercizi respiratori, ginnastica a gambe e braccia e riposo, il giusto riposo necessario per poter dare all’organismo il tempo ed il modo di metabolizzare la nuova condizione e ammortizzare il trauma chirurgico.
La notte, però, non riuscivo a riposare molto.
Abituata alla posizione di fianco, facevo molta fatica a dormire supina, benché sollevata da cuscini e i risvegli, in capo ad una notte, erano svariati.
La mancanza di riposo aveva sicuramente inciso.
La sera del sabato misurai nuovamente la temperatura, questa volta 38,2°C, mi allarmai.
Era febbre e la febbre a questi valori in un post-operatorio non va bene.
Da quel momento la febbre serale è mai scomparsa.
Alternava picchi oltre 38°C a ribassi fino a 37,2°C, ma mai sotto 37°C e non era la mia temperatura basale solita.
Ne parlai con il medico anche in occasione della rimozione punti, ma, essendo già sotto efficace terapia ed avendo effettuato una radiografia di controllo mi disse di non preoccuparmi troppo e che probabilmente se ne sarebbe andata nell’esatto modo in cui era comparsa.
In realtà dopo qualche giorno smisi di misurarla.
Era scesa vicino ai 37°C e la consideravo in dissolvenza.
Tra la data del primo controllo e la data del secondo sarebbero trascorse due settimane, ma l’attesa non fu ripagata…
In realtà neppure in occasione del terzo controllo poté ricevere il responso dell’istologico.
Il lunedì successivo chiamai il chirurgo che ebbe per me una prima, importante risposta.
“Lesione granulomatosa ad eziologia tubercolare…” Recitava così il sunto del referto istologico. Non era una malformazione, non una parassitosi, non una neoplasia, ma era stata una stramaledetta infezione batterica contratta chissà dove e chissà quando che aveva, negli anni, colonizzato e distrutto il mio tessuto polmonare…
La TBC… ma dove cacchio l’avevo contratta e soprattutto quando?
Nel giro di breve mi misi in contatto con un’infettivologa.
Alle 12.30 mi recai in ospedale per la visita.
Mi accolse una dottoressa premurosa, disponibile e attenta.
Ascoltò la mia storia, visionò i miei documenti e insieme chiamammo il chirurgo di Siena per ulteriori dettagli.
In realtà per le risposte tanto attese fu indispensabile un ulteriore ricovero.
Feci ingresso in ospedale il 17 di agosto 2020.
Esattamente come il drenaggio e la tosse in un post-operatorio di chirurgia del torace sono cose che nessun paziente può dimenticare se le ha provate, l’isolamento respiratorio è analogo per chi, come me, si è trovato a convivere con una malattia infettiva del polmone.
La stanza è ampia, curata, pulita, carina, singola…
Ci sono tutti i servizi necessari: bagno, doccia, tavolo, poltrona, frigorifero, armadio…
È isolata e silenziosa, con una zona filtro e due ampie porte che la separano.
Dalla mattina alla sera si incrociano gli sguardi di medici e infermieri solo nelle occasioni di pratiche sanitarie.
Le visite sono ristrettissime ed eccezionali, riservate solo ad un parente, con un particolare permesso e una vestizione completa.
Il vitto arriva puntuale alle 12.30 e alle 18.30.
Non ho possibilità di scelta, ma io mi adatto a tutto.
Arriva sigillato, in ampi contenitori monouso.
Il cibo è buono, direi anche più sapido di quello che cucino io.
A volte mi lasciano uno yogurt o una frutta in più che sistemo in frigorifero.
Le giornate scorrono lentamente, scandite dal rumore dei sistemi di ventilazione e qualche passo sordo là fuori nel corridoio.
Sono sistemata in una camera con vista ad est, con un po’ di fantasia posso anche immaginare dove sia la mia casa!
La mattina vedo sorgere il sole.
Erano anni che non scorgevo l’alba, i primi raggi che si intravedono dietro le colline e quel timido e rotondo neonato arancione che piano piano vi fa capolino.
La vista dalla finestra è rassicurante.
Vedo l’orizzonte, dall’alto del mio secondo piano.
Vedo un boschetto di pioppi, i tetti delle villette a schiera, la pista ciclabile, la chiesa ed il Santuario e poi il panorama, scolpito, disegnato, modellato…
La mattina i colori dell’alba dipingono un quadro nel cielo appena sveglio.
Il pomeriggio resta azzurro, a volte celeste, a tratti blu e so con esattezza quanta umidità vi possa essere nell’aria là fuori, in un caldo pomeriggio di agosto.
L’anno prima, nel ricovero di fine agosto, mi ritrovai a casa a metà settembre.
Il cambiamento climatico che percepii in quell’occasione fu impressionante. Uscii dall’ospedale ed eravamo già all’autunno.
Era inequivocabile, lo si sentiva nel profumo dell’aria, nella brezza della mattina, nei colori delle foglie e nell’orario del tramonto…
In quel ricovero, però, potevo uscire fuori. Sentire l’aria, il calore e vedere i miei familiari in quel giardino che sapeva un po’ di ospedale e un po’ di parco.
Questa volta è diverso…
La risposta tanto attesa arrivò la mattina di venerdì 21 agosto 2020.
“Infezione sostenuta da Micobatterio Xenopi”.
Avevamo finalmente un nome a quasi un anno di distanza da quel 26 agosto 2019.
Il lunedì 24 uscii dall’isolamento.
Il giorno dopo avrei fatto ritorno a casa.
Da due giorni assumevo la terapia e la mattina stessa mi avevano sottoposto a visita oculistica.
La terapia consiste in un cocktail di tre antibiotici da assumere almeno per un anno, periodo in cui, ogni mese verrò sottoposta a visite ed esami ematici.
Combattere contro un microorganismo così anomalo e raro, ti mette nella condizione di non sapere bene cosa aspettarsi dalle terapie.
In realtà sono tutti farmaci validati e già largamente utilizzati, ma gli effetti collaterali sono talmente soggettivi e variabili che è necessario navigare a vista.
Io credo di avere un settimo senso…
Sì, settimo, perché il sesto è già insito dentro di me.
Il mio sesto senso è una capacità di relazione empatica talmente forte da percepire a pelle stato d’animo e intenzioni delle persone che ho di fronte, anche sconosciute.
Mi è capitato molte volte di imbattermi in conversazioni di vario tipo e capire (e carpire) dettagli molto sfumati che poi si sono rivelati fondamentali per comprendere determinate situazioni.
Basta la voce, il tono, le pause, le incertezze, ma anche la troppa sicurezza o la troppa loquacità…
E poi ogni singola parola, per come viene scandita, ripetuta, enfatizzata…
Il senso generale del discorso; se è lineare, se titubante, se frammentato, se contraddittorio… Insomma, non potrei fare l’elenco completo delle cose che mi rendono dotata di questo sesto senso, ma vi assicuro che ce l’ho.
Per capire di avere anche il settimo, ho dovuto faticare un po’.
Diciamo circa un anno!
O meglio, un anno di riflessioni interiori scaturite però da anni e anni addietro di strane sensazioni. Alternavo momenti in cui ero fortemente appassionata dal mio lavoro.
Rientravo a casa gratificata e appagata, soprattutto quando eravamo riusciti a risolvere situazioni complicate.
A me piace rimettermi in gioco continuamente e le sfide che ho affrontato sono state numerose.
Mi hanno sempre dato lo spunto per trovare soluzioni ed ottenere i risultati migliori.
Questo per me è stato fondamentale. Sapevo di poter crescere, sapevo di dover dare il meglio. C’erano però altri momenti in cui sentivo chiaro dentro di me una specie di disagio, ma le cose tendenzialmente stavano andando bene.
Era un disagio strano.
Qualcosa che aleggiava misterioso e ogni tanto si affacciava.
Provavo a scacciarlo, questo pensiero, ma ho percepito questa sensazione in più di un’occasione.
In breve scoprii che in realtà avevo ragione.
Cominciai a sentirmi insofferente.
Soprattutto in determinate giornate.
Bastava il saluto della mattina per farti capire come sarebbe proseguita.
Nonostante tutto, nonostante grandi cambiamenti, sono andata avanti.
Ho provato a convertire la mia delusione in una nuova passione.
Ci ho provato seriamente, cercando di convogliare le mie energie su nuovi stimoli anziché sulla rabbia che sentivo.
Ma non bastava.
Ho iniziato ad andare al lavoro già stanca e frustrata, delusa da tutto e molto molto amareggiata. Iniziavo, però, il mio turno, mi rimboccavo le maniche e davo il meglio di me stessa, sempre.
Con il passare dei mesi ho iniziato ad ammalarmi.
Una, due, tre volte, con frequenze talmente ravvicinate che spesso riuscivo a malapena a terminare la cura precedente.
Spesso, dopo i primissimi giorni di terapia, rientravo al lavoro o neppure restavo a casa!
Quante volte siamo andati a lavorare anche se non eravamo in piena forma? Anche se il giorno o la notte prima avevamo avuto febbre o malesseri?
Inutile negarlo, lo abbiamo fatto tutti e lo faremo finché non riusciremo a capire che la salute (la nostra, ma anche quella degli altri) è un bene fondamentale.
Uscivo da questi periodi stanca e provata.
A volte la stanchezza superava la notte e recuperare energie era sempre più difficile.
Ma perché, ad un certo punto, mi sentivo così stanca del lavoro?
Avevo cambiato qualche mansione, correvo più di prima, ma non poteva essere solo quello.
La stanchezza, intanto, veniva da dentro.
Quando si è felici del proprio lavoro, la stanchezza si percepisce meno. Ci si stanca in egual misura, ma l’energia di una gratifica quotidiana è il motore che ti spinge giorno per giorno.
Quando si è delusi si è stanchi già in partenza.
Nel 2018, dopo svariate analisi, ho scoperto di avere un ipertiroidismo.
Avevo perso peso, ero stanca, iperattiva, insonne…
Il cuore aveva qualche aritmia, sudavo molto e faticavo non appena iniziassi qualunque attività. Dagli esami risultava che si trattava di una malattia autoimmune denominata Morbo di Basedow. Inizia per me un percorso fatto di analisi periodiche, terapia quotidiana, esami collaterali.
Inizio a dare qualche risposta alla mia stanchezza, al mio stato d’animo, alla mia strana sensazione…
Ma c’era di più…
Vivevo il quotidiano come se, da un momento all’altro, qualcosa potesse cambiare.
Come se lì, dietro l’angolo, ci fosse un evento che avrebbe cambiato le cose.
Continuavo ad avere malanni, febbre alta, infezioni…
Mi curavo, lavoravo, stavo meglio e poi di nuovo malanni…
Trascorsi così l’inverno tra il 2018 ed il 2019.
I valori ormonali della tiroide, nonostante la cura, non accennavano a rientrare.
Col tempo ho capito che questo organo è molto suscettibile a fonti di stress e, se il sistema immunitario non è competente, scatena di continuo aggressioni, causando crisi e problemi.
Lo stress…. come non averne…!
Arriva la primavera, arriva l’estate…
In quella stagione, dove notoriamente sono rari i malanni, io ne avevo.
Periodici, ciclici, tanto che arrivavano con la puntualità delle mestruazioni!
Trascorrono giugno, luglio e agosto…
In quel mese, comunque carico di lavoro nonostante le ferie, sono stata davvero male.
E ogni giorno vivevo con quella strana sensazione dentro…
Provo a spiegarla, ma è complicato.
Sentivo che il mio corpo mi stava inviando segnali. Che la lancetta del serbatoio era quasi in fondo, a tratti segnava rosso…
Non avevo un sintomo particolare, netto, distinto…
Mi portavo dietro una febbricola, a volte avevo tosse… ma nulla di così importante da dirmi “Fermati!”.
Eppure, ogni giorno, mi sembrava che il seguente non potessi più andare a lavoro…
Che dovesse accadere qualcosa che mi fermasse lì, esattamente lì, in quel punto, in quel tempo.
A volte pensavo che non mi stavo fermando perché non riuscivo a cogliere i segnali che ricevevo e quindi doveva intervenire un evento più grande per darmi uno stop.
“Valeria fermati!”, mi diceva una voce dentro…
Ma io continuavo a correre; lavoro, casa, lavoro, turni, reperibilità, casa, notte, lavoro, festivi, lavoro, casa…
Poi un giorno mi sono tornate in mente le parole di un’amica in chat di qualche anno prima.
“...Vedi, avevo una vita frenetica, correvo a destra e a manca, sempre a lavorare, poco tempo per la mia famiglia… poi un giorno sono caduta dalle scale… e mi sono arresa! Mesi di letto e riposo per una brutta frattura al bacino… È stato un segnale, mi sono fermata…”
Mamma mia, non volevo fratturarmi di certo il bacino e speravo proprio non accadesse… Ma il senso del pensiero fu questo…
“Se non mi capita qualcosa di importante da mettere fine a questo periodo, non ne esco…!”
Il venerdì andai dal medico…
Raccolse le mie informazioni, le mie sensazioni, i miei parametri…
Mi auscultò e mi disse che i miei polmoni non erano a posto…
“Riposo, terapia e lunedì torna qui che si controllano!”
I polmoni…? Mai avuti problemi ai polmoni… che io sapessi…
Questa cosa non mi piaceva, aveva rovesciato su di me un secchio di acqua gelida… Ma era un segnale… e lo volli cogliere…
Il resto già lo sapete!