“CONTAGIO” di Gloria

30/04/2020

 

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contàgio s. m. [dal lat. contagium, der. di contingĕre «toccare, essere a contatto, contaminare», comp. di con- e tangĕre «toccare»] – 1. La trasmissione di una malattia infettiva dalla persona malata ad una sana sia direttamente sia mediante materiali o mezzi inquinati, ovvero attraverso insetti o animali trasmettitori dei microrganismi infettivi. 2. fig. Influsso dannoso che l’esempio o il pensiero di alcuni possono esercitare su altri. In particolare, in psicologia, contagio psichico, la trasmissione da un individuo all’altro di idee, convinzioni, sentimenti o stati d’animo; sul piano psichiatrico tale contagio è considerato come l’equivalente patologico della suggestione, mentre sul piano sociale è preso in considerazione per la possibilità che ha di determinare particolari modificazioni nelle strutture sociali. [Treccani]

‘Trasmissione. Contaminazione. Influsso dannoso’. Parole entrate a far parte del mio vocabolario quotidiano quasi un anno fa, e la carica emotiva che sta dietro a questo termine a volte è per me devastante. Dopo mesi di analisi e diagnosi fuorvianti, a marzo dell’anno scorso mi hanno diagnosticato una tubercolosi risultata poi multi-resistente ai farmaci, bacillifera e contagiosa. Quando il medico, dopo aver visto la mia TAC, ha guardato mia madre e mi ha detto di mettermi la mascherina ho realizzato che stavo sprofondando nell’ignoto e che la tosse che avevo da settimane era sintomo di qualcosa di serio. Dopo due mesi di isolamento in ospedale, una terapia iniziata con diciassette pastiglie al giorno e una prospettiva di almeno due anni di cure; oggi però posso dire che poteva andarmi molto peggio…

Non voglio soffermarmi sulle vicissitudini immediatamente successive alla diagnosi, anche perché probabilmente mi servi­rebbe lo spazio di un intero giornale e per quello ho scelto la psicoterapia. Sento però la voglia di raccontare, dopo un anno, il bagaglio di riflessioni che mi porto dietro, alla luce del fatto che anche il mondo continua ad ammalarsi, insieme alle persone, e continua a illudersi che disastri, calamità, guerre e malattie abbia­no confini ben precisi.

Partiamo da un livello macro. Basta aprire un giornale serio per capire in che cosa ci stiamo infilando. L’inizio di quest’anno ha visto il mondo piegato su più fronti. Quello politico: l’uccisione dell’iraniano Soleimani per mano degli USA; i droni, i missili e le milizie di Teheran pronti a vendicarne la morte; l’abbattimento di un aereo ucraino; Trump che fa pressioni all’Europa per isolare l’Iran; il possibile supporto israeliano all’attacco; il rischio di una guerra. E quello ambientale: il potente e devastante incendio in Australia; il problema dei rifiuti e, ultimo, l’epidemia di coronavirus cinese. Questo è quello che noi vediamo, in questo momento, da lontano. C’è il forte rischio che la politica e la natura possano rivoluzionare e piegare l’attuale assetto mondiale esistente, e non in una miglior direzione. Ma ce ne stiamo preoccupando? Mi chiedo: come funziona il rapporto tra riflessione e azione? Interagiamo e ci preoccupiamo di una cosa in base a quanto questa ci è vicina? Quanto è labile il confine vicino/lontano? Un atteggiamento di ‘menefreghismo’, o meglio noncuranza, nei confronti di un determinato argomento o dall’altro lato un comportamento più consapevole e attento si basano su queste dinamiche di vicinanza/lontananza?

Ritorniamo ora al micro, la mia storia, più vicina. Chi è passato tramite l’esperienza di una malattia, più o meno rara e grave, sa che un aspetto curioso dell’ammalarsi è il passaggio dalla quasi completa estraneità e ignoranza circa quella malattia alla più alta competenza in materia. A me è successo, nel giro di un anno sono diventata un’esperta di tubercolosi: dal non avere idea di cosa significasse contrarre la TBC, ho imparato quali ceppi esistono al mondo, le aree geografiche coinvolte, i livelli di gravità e via dicendo. Interessarsi a determinati aspetti della vita è sempre diverso che passarci attraverso, questo è chiaro. Uno degli aspetti più duri per me è stato la ‘possibilità del contagio’. In questo senso, la mia malattia, ha scardinato tutto, certezze, confini e parametri. Ho viaggiato tanto, ho scoperto mondi e culture diverse, e non mi pento di nessun confine oltrepassato. Poi sono tornata a casa, e insieme alle bellissime esperienze mi sono portata, dentro di me, anche questo batterio. E cosi come si trasmettono i nuovi saperi, ho coinvolto in questa vicenda le persone che mi stanno vicine. Più di una volta mi sono chiesta: perché questa cosa non poteva rimanere solo mia? Perché non potevo prendermi io la responsabilità delle mie scelte e affrontarne le conseguenze? Nessuna vita è facile. Io per anni ho trascorso la mia facendomi forza per superare i problemi che mi si presentavano davanti, in silenzio. Raramente ho chiesto aiuto, non volevo coinvolgere nelle mie sofferenze le persone a me vicine. Che ingenua, come se tutto ciò fosse controllabile. E dire che ora le ho coinvolte nel peggiore dei modi.

Voglio raccontare questa parte della mia storia perché ho la percezione che molte delle cose che stanno accadendo nel mondo abbiano un denominatore comune, siano considerate lontane rispetto alle nostre vite. Così lontane da non aver destato ancora troppa preoccupazione. Credo dovremmo allenarci invece a sentirle più vicine. Perché poi quando arrivano, se arrivano, senza che uno ne sia pronto, sono faticose. Di che cosa abbiamo bisogno per renderci conto che tutto è estremamente interconnesso? Potremmo prevenire, ma non riusciamo a farlo. La prevenzione, nella malattia come nella vita, richiede un processo mentale estremamente complesso. Questo cosa implica? Non faremo nessun passo verso ciò che sta succedendo intorno a noi fino a che dei missili non cadranno sui nostri tetti e non uccideranno chi conosciamo? O finché un incendio non ci entrerà dritto in casa? Cosi come nella malattia, dove arriviamo a provare enormi sofferenze quando questa è già troppo vicina, a quel punto quel dolore che prima ci sembrava quasi presunto, si approprierà di noi. Dobbiamo necessariamente arrivare al punto di pagarne un prezzo così alto? Non che mi disperi, credo che il dolore porti con sé un effetto di collaterale bellezza e crescita non equiparabili. Chissà però se sia umanamente possibile passare da altre vie di comprensione.

Quello che porto qui allora è solo la mia esperienza, e le domande che mi pongo quotidianamente. Mi piace credere che l’antidoto a questo dilemma vicino/lontano siano proprio le storie. Trovare persone coinvolte, fermarsi e ascoltarle. Forse questo aiuterebbe a ridimensionare gli spazi. Le storie accorciano le distanze, tra il macro e il micro, tra chi ha dovuto sbattere la faccia contro quel dolore e chi invece non ne è ancora stato seriamente colpito. Ognuno di noi ha una storia da raccontare, e il bello delle storie è che anche girando tutto il mondo non ne troveresti mai una uguale all’altra. Le storie hanno la potenza di modificare e avvicinare lo sguardo, di ‘umanizzare’ le vicende, sono lo spazio tra quel sentore lontano e la catastrofe che ti piomba accanto. Avvicinare le cose a sé, sentirle tanto vicine da voler modificare qualcosa in noi, è però una propensione che richiede fatica e allenamento costante. Il menefreghismo si contagia, come l’attenzione e la cura verso ciò che ci circonda. Con questo non voglio dire di sposare tutte le cause che questa vita difficile si porta con sé, ognuno sceglie le proprie, però credo sia importante coltivare una maggior cura, nei confronti di noi stessi e nei confronti degli altri, e allenare lo sguardo a un maggior senso di vicinanza. Noi possiamo scegliere una parte, il resto lo fa la vita. Io ci voglio provare, questa è la sfida che la malattia ha risvegliato in me.

contàgio s. m. [dal lat. contagium, der. di contingĕre «toccare, essere a contatto, contaminare», comp. di con- e tangĕre «toccare»] [Treccani].

 

 

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