“UN LEGAME PER LA VITA” di Sabrina Frattima

30/04/2020

 

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“Mamma perché hai scelto di fare l’infettivologo e non il ginecologo o il pediatra…?” Lo so che prima o poi questa domanda arriverà dal più severo dei giudici, mia figlia. Sarà in quel momento che dovrò riavviare il nastro e iniziare a raccontare una storia incredibile iniziata quando, appena compiuti 19 anni, mi sono ritrovata in un folle e ansiogeno pomeriggio a prendere il telefono e, dalla stanzetta di casa mia, chiamare il reparto di Malattie infettive di uno degli ospedali più importanti del paese; un ospedale di cui, fino a quel momento, ignoravo l’esistenza. Mi vedo seduta sul divano con l’ansia che mi divora a cercare disperatamente un posto letto per un malato speciale, un uomo che era stato il ritratto della salute sino a 10 giorni prima, mio padre. Mentre aspetto che il centralino mi colleghi al reparto, ripercorro veloce con la mente i terribili dieci giorni che hanno preceduto quel momento.

Lo vedo, papà, un uomo solare, iniziare a essere insolitamente rallentato nell’eloquio e nei movimenti.

Compare la febbre alta e tutto sembra essere riconducibile a un malanno stagionale, seppure ci troviamo a metà settembre. Nonostante gli antipiretici e un antibiotico la febbre resta immutata, alta, troppo alta per non iniziare a preoccuparsi e papà, che non si era mai fermato, si mette a letto per giorni, quasi muta in viso per quella iperpiressia che non lo abbandona.

Probabilmente uno dei ricordi maggiormente vivi è quello di una notte in cui mi alzo per andare a bere e lo incrocio nel corridoio. In viso è strano, c’è qualcosa che non torna, vuole tornare a letto ma sbaglia camera ed entra in bagno, lo guardo meglio, non sembra riconoscermi e in quel momento mi accorgo che il suo sguardo ha qualcosa di diverso, gli occhi sono strani… scoprirò qualche ora dopo che il nome di quello sguardo è diplopia.

Seguiranno giorni in ospedale, giorni in cui il bollettino è sempre lo stesso: febbre alta, diplopia, disorientamento nel tempo e nello spazio, allucinazioni visive fino alla comparsa di difficoltà respiratoria che richiederà l’uso di ossigeno; ricordo ancora la mascherina collegata a una bombola gigante. Poi la coscienza si spegne e in quel momento la paura è al massimo e non so cosa mi spinge a fare quella telefonata, probabilmente la disperazione di una situazione in caduta rapida. Ecco che la voce di una donna risponde al telefono, vuole tutte le informazioni che le posso dare da non addetta ai lavori e poi mi dice che il posto c’è e ci aspettano. Da quel momento è come un giro dentro una lavatrice con la centrifuga al massimo dei giri. In poco tempo siamo a Milano a osservarlo attraverso un vetro mentre alcuni medici vestiti con sovracamici gialli entrano ed escono dalla stanza. Sono rimasta affascinata dalla passione e dalla voglia di vincere quella sfida che ho osservato in ognuno di quei volti e anche se la battaglia l’ha vinta il Micobatterio tubercolare, è in quei momenti grigi che ho capito che volevo ancora sentirne parlare, che volevo saperne di più, che volevo conoscerlo da vicino, anche se probabilmente non avrei potuto conoscerlo tanto meglio rispetto ad averlo visto portar via con sé mio padre. Tempo dopo sono diventata un’infettivologa.

È questa la storia della mia scelta, dirò a mia figlia, è la storia di una malattia che esiste, di un batterio che, come altri, ha imparato a proteggersi dalle uniche armi che abbiamo sempre usato per vincerlo, gli antibiotici. Ecco che, rispetto a quando l’ho incontrato la prima volta, ha cambiato il suo volto e la sua aggressività.

Racconterò allora di questa battaglia continua, che fa nascere ancora oggi nuovi infettivologi e che quelli un po’ più anziani non hanno mai smesso di combattere.

 

 

 

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