“LA CONSAPEVOLEZZA DELLA MALATTIA” di Alberto Roggi

30/04/2020

 

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– Pronto?

– Pronto Dottor Roberto? – ormai il nome sbagliato era diventata la consuetudine.

– Sì, sono io, buongiorno.

– Come sta? La famiglia sta bene?

– Bene grazie e voi? La vostra giornata?

– Bene grazie a Dio. Sono il dottor Tendrebeogo, responsabile del reparto di pneumologia dell’Ospedale Paolo VI, chiamo per dirvi che la paziente S. è deceduta questa mattina.

 

– Chi è il prossimo paziente Madame Ouedraogo?

Il ritmo della giornata era abbastanza regolare, nessun ordinario imprevisto aveva stimolato quei nervi già sollecitati a combattere il caldo estenuante, nessuna cartella mancante, nessun farmaco scaduto. La luce che illuminava l’ambulatorio era sempre la stessa, sembrava quasi che il sole non avesse il premesso di disturbare quella routine; la privacy dei pazienti impediva anche ai raggi di entrare, di penetrare dall’unica finestra presente e di poggiarsi, questa volta senza dare disagio, sulla pelle di chi stava vivendo il proprio inferno. E in questo microcosmo imperturbabile, una donna di circa sessant’anni dalla voce e temperamento severo e un uomo sulla quarantina con più barba che consapevolezza, cercavano di non danneggiare troppo con discutibili decisioni le possibilità che la vita di tanto in tanto offriva ai pazienti.

– La prossima è S., cartella 98/03. È una delle prime pazienti. Alti e bassi anche se sembrerebbe piuttosto regolare con i farmaci – il rumore della pesante cartella sul tavolo del medico riassumeva in maniera chiara e desolante tutto il percorso intrapreso da S. – L’ultima visita è stata fatta tre mesi fa, ecco qua gli esami.

– Incredibile, ancora con il primo regime di trattamento, nessuna resistenza maggiore eppure ogni tanto si presenta con questi crolli improvvisi, per poi ritornare in buono stato senza alcuna spiegazione. La faccia entrare per piacere – disse il medico cercando di mettere ordine tra quei documenti

– Buongiorno S.

Il suono della voce era l’unica cosa che il medico era riuscito a far muovere mentre le sue mani restarono sospese in aria aggrappate alle decine di referti di laboratorio e i suoi occhi calamitati sul corpo di S. come quelli dei bambini che osservano le fiamme in un camino. La bellezza di S. era pura, niente a che vedere con la sensualità o il desiderio, non aveva bisogno di esprimersi attraverso il corpo, lo sguardo o un atteggiamento. Era bellezza. Pura.

– Hai riportato le compresse avanzate? – Madame Ouedraogo aveva messo fine a quell’irreale momento vissuto soltanto dai neuroni del medico – Ok, sono giuste, brava, hai preso bene la cura.

– Come stai S.? – il medico, come è consuetudine, si sporse verso la paziente per cercare di entrare in confidenza, di guadagnare la sua fiducia.

– Bene – rispose S. con voce flebile e sguardo rivolto al pavimento.

Era ormai un po’ di tempo che il medico viveva in quella città, sapeva quindi che quella risposta non aveva niente a che vedere con lo stato fisico o psicologico di una persona ma che si trattava della risposta che bisogna sempre dare per prima a quel tipo di domanda, anche se in quel momento ti trovi con i piedi sui carboni ardenti. Il medico non fece in tempo a sfoggiare un sorrisetto presuntuoso che Madame Ouedraogo, con la delicatezza di una carica di cavalleria, iniziò con le domande di routine.

– Hai avuto febbre? Hai avuto tosse? Sei stata visitata in qualche centro sanitario? Mangi? Hai perso peso?

– Tosse – rispose S., guardando Madame Ouedraogo.

– Da molto tempo? Lo sguardo di S. ritornò verso quel punto fisso del pavimento mentre la testa annuì timidamente, frenata dalla paura delle conseguenze della risposta.

– Riesci a mangiare? – Due piccoli suoni fecero intendere una risposta negativa. A quel punto il medico, tenuto in disparte dalla conversazione, probabilmente per una questione di genere oppure solo per il fatto di essere uno straniero, decise di ridurre quella tensione che si era creata e si avvicinò a S.

– Vieni, sentiamo se ci sono dei problemi ai polmoni – le disse accompagnando queste parole con un sorriso gentile e premuroso – togliti la maglietta e fai dei bei respiri –. Le scapole e le costole formavano dei rilievi sulla pelle morbida e lucente di S., il corpo appariva come un sottile filo di erba tra le mani del medico il quale cercava di cogliere un segnale chiaro per spiegare quell’evidente stato di malnutrizione.

– Sali sopra la bilancia che controlliamo il peso. Sei dimagrita sei chili dall’ultima visita. Facciamo così, adesso ti prescrivo un esame, devi andare al laboratorio dell’ospedale Paolo VI dove ti raccoglieranno dei campioni di sputo. È gratuito, non devi pagare nulla. Appena ti consegneranno il risultato lo riporti a me o a Madame Ouedraogo.

 

– Cosa è successo? Quali sono state le cause del decesso?

– Ha avuto un’insufficienza respiratoria acuta molto importante e a differenza del ricovero precedente non è riuscita a superarla. Il quadro radiologico della tubercolosi era molto brutto, lo avevate visto.

– Si

– E se ci mette anche l’HIV… non è facile. Purtroppo, non avevamo neppure a disposizione l’ossigeno, voi lo sapete bene, il Fondo Mondiale ha ridotto i finanziamenti e la burocrazia per avere il materiale necessario blocca tutte le procedure. Inoltre, oggi era giorno di ambulatorio esterno e i medici erano tutti impegnati.

– Capisco.

– Non è facile. Ma andrà meglio, se Dio lo vorrà.

 

– Buongiorno S. come stai? – il medico si sedette sul lato del letto ed accarezzandole la mano le si avvicinò – Hai dolore da qualche parte? Sei riuscita a bere un po’ di acqua? La ragazza annuì debolmente, considerando solo l’ultima domanda.

– Cosa è successo? Perché hai lasciato l’ospedale? Ti hanno fatto uscire i medici? Lo sguardo di S. era fisso, diretto verso un punto non meglio definito della stanza di degenza. Quelle domande non potevano avere risposta, per molteplici ragioni, solo il medico straniero non riusciva a capirlo. La situazione in cui si trovava S. non era più legata a una questione medica fatta di sintomi e ipotesi diagnostiche, lo si evinceva dal fatto che adesso la conversazione era solo in lingua locale e la sola persona che poteva avere accesso alla verità era Madame Ouedraogo. Nessuna emozione trapelava da quell’incomprensibile dialogo, nessun pianto, nessun rimprovero, nessuna voglia di includere quella magra figura barbuta con il camice bianco che si trovava vicino a loro.

– Lasciamola riposare – disse Madame Ouedraogo avvicinandosi alla porta della stanza di degenza – le spiego tutto in ambulatorio –. Il medico obbedì e completamente frastornato raggiunse Madame Ouedraogo mentre S. girandosi sul letto si rannicchiò su sé stessa e chiuse gli occhi.

– L’hanno portata qua dal villaggio – disse Madame Ouedraogo mentre posava il suo imponente corpo su una vecchia sedia di ferro – si è sentita male la mattina mentre era in casa, ha perso conoscenza e un suo parente l’ha portata al centro.

– Dal villaggio? Ma come è possibile? Era ricoverata all’ospedale Paolo VI per tubercolosi. E poi mi sta dicendo che l’hanno trasportata in moto, incosciente, per tutti quei chilometri? Ma sono dei pazzi! –Il volto dell’infermiera era serio, pensieroso. Era chiaro che questa faccenda della moto, che poteva risultare assurda per il medico, non la toccava più di tanto, ne aveva viste e sentite sicuramente di più incredibili. E anche le condizioni di salute di S. non potevano impensierirla, i valori ematici alterati si erano stabilizzati, la terapia era stata somministrata in tempo, S. avrebbe sicuramente superato anche questa. No, c’era ancora qualcosa di non detto, l’ombra che si era posata sul delicato corpo di quella ragazza la faceva preoccupare. Proprio in quel momento Pascal, il tuttofare dell’ospedale, si affacciò alla porta dell’ambulatorio insieme a un altro uomo. Il solito saluto fatto di sorriso e gesto di rispetto verso il medico e poi Pascal si rivolse a Madame Ouedraogo in lingua locale. Di tanto in tanto spuntava fuori il nome di S. nella conversazione. Era piuttosto chiaro che stavano parlando di quello che era successo e l’agitazione dell’infermiera, a cui il medico non era abituato, rendeva l’atmosfera ancora più tesa. Negli istanti che seguirono il medico rimase ancora una volta emarginato dalla discussione ma questa volta la reazione non fu di smarrimento come nella sala di degenza ma di tensione; la sensazione d’impotenza e di inutilità fece crescere dentro di lui, essere presuntuoso, una sorta di rabbia.

– Madame Ouedraogo mi spiega cosa sta succedendo? –

– Non è facile – rispose la donna in evidente difficoltà – il signore che Pascal ha accompagnato qua è il fratello maggiore di S., è venuto dal villaggio. La vuole riportare a casa.

– Non capisco, c’è un centro sanitario vicino al loro villaggio dove può essere tenuta in osservazione e continuare le cure? – a questo punto lo sguardo di Madame Ouedraogo si abbassò verso il pavimento di colore azzurro.

– No, non la porta in un centro sanitario, la porta in famiglia, resterà tre giorni là e poi la riporterà qua.

Nel frattempo, i due uomini continuarono a parlare tra di loro, a confermare ancora una volta l’insignificante ruolo del giovane straniero barbuto in quella particolare situazione.

– Ma stiamo scherzando!? Ma lo sa che in questo modo rischia di far morire S.? – A quel punto il medico si alzò dalla sedia, passò davanti la scrivania piena delle cartelle dei pazienti del giorno seguente che l’infermiera aveva preparato e si avvicinò al fratello di S., un uomo sulla cinquantina, con il volto pieno di cicatrici caratteristiche dell’etnia di provenienza e due occhi neri, profondi, privi di emozioni.

– Capisce la mia lingua? – gli si rivolse alzando leggermente il tono di voce. A quella domanda la presenza del medico si manifestò anche agli occhi dell’uomo che, rendendosi conto che lo straniero gli aveva rivolto parola, fece un cenno di rispetto, quasi sottomissione, come era abituato a fare in quella situazione.

– S. non può uscire da questo ospedale, sta male, deve ancora fare le cure –. L’uomo si rivolse ancora verso l’infermiera in lingua locale e scosse la testa.

– Dottore la situazione è complicata, il fratello vuole portare S. al villaggio per farle fare uno dei cicli di cure tradizionali che ha iniziato quando la famiglia è venuta a sapere della malattia, questo ciclo dura tre giorni. Poi ha promesso di riportarla direttamente qua –. Molto spesso la verità e la consapevolezza non hanno bisogno di tempo e di riflessione, si manifestano in un attimo, folgorandoti. Gli stati comatosi in cui S. si presentava ciclicamente in ambulatorio, gli esami alterati senza nessuna spiegazione, le decine di costosi esami radiologici inutili, adesso tutto era più chiaro. Quello che accadde dopo fu un susseguirsi di grida, insulti, minacce da parte dell’ingenuo e impulsivo medico che si agitava da una parte all’altra dell’ambulatorio sotto lo sguardo impassibile di chi guarda degli insignificanti gesti. C’era qualcosa di sbagliato. No, c’era qualcosa di inconsapevole, una comprensione della realtà che il medico, in questa vita, non avrebbe potuto avere.

 

– Dottor Roberto, avrei bisogno anche di alcune informazioni, nella cartella dei due ricoveri non ci sono i contatti dei familiari, potreste guardare tra i documenti del vostro ambulatorio?

– Mi spiace, noi non li abbiamo, so che ha un fratello ma non so assolutamente come rintracciarlo. La nostra infermiera può sicuramente aiutarvi, rientra lunedì, vi faccio chiamare sicuramente.

– No, purtroppo non è possibile, abbiamo un problema all’obitorio, il sistema di raffreddamento si è rotto e quindi dobbiamo procedere velocemente con la sepoltura. Non può capire che odore c’è qua. Mi spiace ma il corpo della paziente sarà sotterrato in una fossa comune. Arrivederci dottore che Dio protegga la sua anima.

– Arrivederci.

 

Era ormai da un po’ di giorni che non aveva notizie di S., così il medico, vincendo la pigrizia che normalmente comandava i momenti di libera azione nel mondo, si diresse verso l’ospedale Paolo VI per capire come stesse procedendo quel secondo ricovero. Entrando nel reparto di pneumologia avvertì subito l’odore della malattia, ogni volta ci faceva caso, era quasi convinto di poter essere come quei ratti che riescono a diagnosticare la tubercolosi attraverso l’odore dei campioni di laboratorio. A pochi metri dalla stanza che S. condivideva con altre cinque malate di tubercolosi, sentì una voce, un canto pieno di gioia, di risa, di energia e quando si affacciò la vide danzare, felice, un corpo in piena armonia con il mondo, circondato da altre donne malnutrite, sofferenti, coraggiose.

– S. la mascherina!! – disse il medico rivolgendole un gran sorriso. Cos’è che ci porta a creare delle barriere mentali che rendono impossibile l’integrazione di elementi provenienti da percorsi differenti? Perché il sorriso, la malattia, la danza, la bellezza, il dolore, la sofferenza non possono far parte di uno stesso istante? Era proprio necessario pensare alle direttive per garantire un accettabile controllo dell’infezione? Era forse la contagiosità la priorità di quel momento? Per una curiosa circostanza il medico avrebbe avuto piena consapevolezza di quel momento soltanto il giorno prima di morire, dopo che per anni continuò a chiedersi cosa sarebbe accaduto se avesse trasferito S. in un altro ospedale o se avesse potuto aiutarla in qualche altro modo. La consapevolezza della malattia e del suo ruolo nel mondo si è rivelata lo stesso.

 

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