30/04/2020
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Racconto la mia storia, di paziente prima ancora che di medico.
Ho avuto la tubercolosi nel 2004. È stato l’anno che ha diviso la mia vita in un prima e un dopo.
Avevo 31 anni, a quel tempo lavoravo come medico infettivologo in un ospedale sperduto nella savana del Kenya. Mi occupavo principalmente di HIV, ma in realtà facevo un po’ di tutto, dalla pediatra all’anestesista in sala operatoria (o almeno ci provavo). Abitavo alla casa del Tamarindo, la casa dei medici e dei volontari, in cima a una collina, da lì lo sguardo si perdeva all’orizzonte nella savana, interrotto solo da qualche sparsa capanna con il tetto in lamiera. Non avevamo la corrente elettrica, e quando c’era bisogno di operare si accendeva il generatore, altrimenti si usavano le lampade a petrolio. Naturalmente non c’era internet; la linea telefonica dipendeva da come girava il vento. All’ospedale i pazienti arrivavano anche da molto lontano, era povera gente, per lo più contadini e giovani donne stremate da una vita durissima. Tanti bambini, tantissimi. Era zona di malaria, che era la vera emergenza in alcuni periodi dell’anno. In ospedale eravamo sempre di corsa, file interminabili di pazienti, chi ha vissuto l’Africa lo sa. C’era anche tanta tubercolosi, che molto spesso si presentava a braccetto con l’HIV. C’era un vecchio che stava sempre davanti al mio ambulatorio. Era emarginato, perché tutti sapevano che aveva la tubercolosi da anni. Se ne andava in giro solo, col suo bastone, a tossire tutto il giorno. Veniva a prendere la terapia, una parola, un bicchier d’acqua, un sorriso. Era struggente. Era, per me, il volto della tubercolosi.
A Natale del 2003, durante il mio rientro in Italia per le feste, succede qualcosa: a mia madre viene diagnosticato un tumore maligno in stadio avanzato. Proprio a lei, che era una donna estremamente energica che aveva appena ricevuto il dono di essere diventata nonna dell’unico nipote che ha conosciuto. Non ci sembrava vero. Decido che non posso ripartire per il Kenya, mi fermo in Italia e assisto mia madre in un percorso triste e doloroso, ma anche pieno di piccole cose indimenticabili, come i momenti in cui mi dettava le sue ricette in un quaderno che custodisco gelosamente. Mentre mia madre, dopo neanche 5 mesi di malattia, comincia a spegnersi e viene ricoverata nel reparto di malattie infettive dove avevo lavorato per anni, un giorno mi sveglio con un dolore puntorio all’emitorace destro. Lì per lì non ci faccio caso, erano giorni in cui sollevavo di peso mia madre, l’aiutavo a cambiarsi, per cui ho pensato a una contrattura muscolare. Ma il dolore rimane. Dopo un paio di giorni compare la febbre. Decido di farmi fare una radiografia del torace. Dopo l’esame la radiologa mi chiama, mi fa un paio di domande, mi fa vedere le immagini: abbondante versamento pleurico fino al IV elemento costale. Vengo ricoverata in ospedale, nella stessa camera di mia mamma e cominciano gli accertamenti: TC del torace, toracentesi prima diagnostica poi evacuativa e via dicendo. Fanno diagnosi di tubercolosi e inizio la terapia. Sono frastornata, avrei voluto essere vicina a mia madre ma mi sento debole, è tutto troppo grande e pesante.
Arriva un dottore del reparto che mi dice con una dolcezza infinita: “Marina, non puoi stare qui a vedere tua madre morire. Ora devi pensare a te. Vai a casa e prosegui la terapia. A tua madre pensiamo noi”. Ho fatto come diceva lui, mi sono autodimessa, sono tornata a casa, mi sono appesa biglietti in tutta la casa per non dimenticarmi le terapie, ho ripreso a dormire, ho accettato la piega che stava prendendo la mia vita e soprattutto ho accettato i miei limiti. Dopo 20 giorni la mamma è volata in cielo. Io ho proseguito le cure, a metà della terapia sono tornata in Kenya con l’appoggio incondizionato di mio padre e di mia sorella, ho ripreso il mio lavoro, ho guardato con occhi diversi tutto quello che mi circondava: i pazienti, i bambini, la savana. Tutto era più malinconico. Ma forse ancora più forte di prima.
Ho finito la cura, sono guarita. Ho sposato il medico che mi aveva aiutata nel momento più difficile della mia vita. Ho iniziato a occuparmi di tubercolosi a tempo pieno. Dietro ogni paziente cerco di vedere la sua storia, il suo dolore. A quelli che fanno fatica ad accettare la malattia racconto la mia esperienza e cerco di dare speranza.
Sono convinta che la tubercolosi abbia rappresentato per me l’abisso e l’inizio della rinascita.
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