“SE IL PAZIENTE FA PAURA” di Clotilde Del Vecchio

30/04/2020

 

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La tubercolosi: un’antica malattia dai nuovi volti che non risparmia nessuno e che ancor oggi rappresenta una grave minaccia per la salute mondiale.

Negli anni la TBC è stata definita in vari modi, alcuni anche enfatici: tisi, mal sottile, piaga bianca, consunzione… Ma comunque la si voglia definire, ciò che maggiormente colpisce, oggi come in passato, è lo stigma a cui sono tuttora soggetti i pazienti affetti da questa malattia. Ancora oggi infatti i pazienti con TBC vengono ‘marchiati’, ‘bollati’, allontanati non solo da amici e familiari, ma anche – cosa ancor più grave – dal personale sanitario.

Questo fatto mi ha riportato a quando, giovane infermiera piena di sogni e aspettative per questa professione che come ebbe a scrivere l’Alfieri “volli e fortissimamente volli”, varcai per la prima volta la porta dell’Ospedale forse più famoso del meridione per la cura della tubercolosi: il ‘Monaldi’.

E vorrei portare le mie esperienze personali prima come figlia di un paziente affetto da TBC e poi come operatore sanitario che tuttora lavora in un reparto di Tisiologia.

Sì perché, incredibile ma vero, quando fui trasferita e ricollocata presso il reparto di Tisiologia gli allora colleghi chiesero “gentilmente” ma fermamente che liberassi l’armadietto e mi cambiassi altrove!

*****

È notte quando lo squillo del telefono s’insinua nei miei sogni. Non mi rendo conto subito di ciò che sta succedendo, penso di sognare… ma il suono è sempre più insistente e fastidioso. Mi decido quindi ad aprire gli occhi per cercare di afferrare la cornetta e dirne quattro allo scocciatore.

All’inizio non riuscivo a capire chi ci fosse dall’altra parte, sentivo solo piangere… poi mi sveglio del tutto e riconosco la voce di mia madre che mi avverte che mio padre, ricoverato in ospedale per BPCO (broncopneumopatia cronica ostruttiva), ha avuto un’importante emottisi. Non percepisco esattamente cosa stia accadendo, anche perché all’epoca lavoravo in un’altra città lontano da casa. Prendo il primo volo disponibile per Napoli e mi precipito in ospedale.

Qui trovo mio padre in un letto che mi appare troppo grande per lui, quasi non lo riconosco nel suo pallore, e mia madre rannicchiata accanto su una sedia.

Chiedo di poter parlare con i medici del reparto per avere notizie quando vedo passare una persona, un ausiliario, con il vassoio del cibo che si dirige verso la camera di mio padre. Costui appoggia il vassoio per terra fuori dalla porta e, senza entrare, dice a mia madre che può ritirarlo.

Io, che penso che una delle funzioni più importanti nel nostro lavoro sia il rispetto della dignità del malato, prima come persona e poi come paziente, nell’assistere a quella scena monto su tutte le furie e chiedo spiegazioni.

Sapete che cosa mi sento rispondere? “Quello ha la tubercolosi, ha sputato pure sangue. A chi volete inguaiare? Se non vi sta bene ve ne potete pure andare così la finiamo con questa storia”.

Non vi dico il mio sgomento, mentre mia madre cerca di calmarmi e la mia voce sale sempre di più, tanto che accorrono tutti: medici, infermieri, il caposala, gli altri degenti, i parenti.

Un medico mi accompagna dal primario che gentilmente mi riceve, anche se non è il giorno previsto per i colloqui con i parenti. Questi, cercando di calmarmi, mi informa che quella che credevano una polmonite era in realtà una brutta forma di tubercolosi.

Quando chiedo spiegazioni in merito alla scena a cui ho assistito e se fosse loro intenzione prendere provvedimenti disciplinari, si fa avanti il caposala che aveva assistito all’accaduto e mi apostrofa così: “Ah! Tu devi essere la figlia infermiere, quella che lavora a Bologna! Guarda che qui siamo a Napoli mica al nord e poi tuo padre sta qua perché pensavano che avesse la polmonite. Mica è il suo posto. Stiamo cercando di trasferirlo in un reparto adatto. Quindi non fare troppo la schizzinosa e vedi di non creare casini”. L’ospedale Monaldi vanta una grande tradizione per la diagnosi e cura della tubercolosi e all’epoca dei fatti c’erano un gran numero di reparti dedicati, oggi scomparsi.

Che cosa aggiungere? Lascio che ognuno tragga le proprie conclusioni…

Da allora sono passati molti anni, la medicina ha fatto passi da gigante ma ancora poco si fa o si è fatto contro l’ignoranza e la disinformazione riguardo la tubercolosi. Alla soglia del terzo millennio assisto a episodi che mi lasciano sgomenta e addolorata, come quello di un giovane paziente D.P.D. di 34 anni, rumeno, morto non per una TBC debitamente curata ma, letteralmente, per inedia, cioè di fame perché, una volta dimesso dal nostro reparto, non era stato accettato in casa dai suoi coinquilini; abbandonato è diventato un senza tetto (ed eravamo in pieno inverno…!).

Ce ne sono tanti di episodi simili, e altrettanto eclatanti. Come quello del giovane S. T. di 24 anni, gambiano, affetto da una forma di pericardite tubercolare che, dopo essere stato ricoverato presso vari reparti di cardiologia e cardiochirurgia, è giunto alla nostra osservazione. Ben presto, a causa della sua patologia è insorta una sintomatologia cardiaca importante con scompenso cardiaco congestizio che necessitava il trasferimento presso un’unità di terapia intensiva cardiologica.

Bene, anzi male, perché il giorno successivo al suo arrivo in U.T.I.C. avvenuto durante le ore notturne, c’è stato tutto un avvicendarsi di telefonate concitate da parte del personale della struttura preoccupati per un eventuale contagio (ma le forme di TBC extra polmonare, oltretutto, non sono contagiose!) e che tutto ciò che richiedevano era un nuovo trasferimento del paziente.

Ho detto poc’anzi che provo dolore e sgomento davanti a questi accadimenti, ma posso anche affermare con certezza che lavorare in un reparto di tisiologia, a contatto con pazienti molto spesso stranieri, mi ha arricchito: mi ha fatto capire che il nostro compito non è solo curare la malattia ma è fondamentale prendersi cura della persona che deve essere vista come un “tutt’uno” fatta di corpo, mente, emozioni e vissuti personali.

Ogni persona è unica e irripetibile, con una propria visione del mondo, e ogni individuo reagisce in modo completamente diverso alla malattia.

Proprio perché la tubercolosi incute tanta paura è necessario, a mio avviso, creare con il paziente e i suoi familiari una relazione che si basi sulla comprensione, sulla fiducia e sulla capacità di ascolto per poter comunicare con loro, calarsi nella loro realtà e rispettarla.

Probabilmente anch’io in passato avevo dei pregiudizi, non lo nego, ma oggi cerco di stabilire con i nostri pazienti, laddove mi è consentito, un contatto autentico fatto di osservazioni, ascolto, di parole ma anche di silenzi…

Alcuni giorni penso di aver fatto ben poco per loro che, invece, spesso mi danno tanto, di non riuscire ad aiutarli come vorrei, di sentirmi impotente di fronte alla, passatemi il termine, ‘cattiveria umana!’.

Ed è proprio in questi momenti che mi rendo conto che uno sguardo… un sorriso… una parola che riusciamo a scambiarci può ‘sfondare’ quell’odiosa barriera che li circonda e restituire loro speranza nel futuro.

 

 

 

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