30/04/2020
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Scorrono molte immagini nella testa delle persone, più di quelle su cui realmente focalizziamo l’attenzione. Io navigo sempre in balia delle mie immagini, mi piace scherzarci sopra e chiamarle ‘assenze’. Potrei anche definirle ‘galleggiare altrove’. Qui in questo ambulatorio ‘galleggiano’ le persone più disparate. Dagli operatori sanitari che hanno avuto un contatto con la tubercolosi agli albanesi con le caverne nei polmoni. Poi, ci sono quelli che parlano solo la lingua mandinga e quelli che l’inglese lo conoscono meglio di me. Transitano tutte le sfumature della pelle, qui…
Ci sono tutti i dialetti dell’Africa da noi. È l’ambulatorio che cura il mondo, questo…
L’ultima visita di oggi è un ragazzo color cioccolato fondente con degli occhi scuri e i capelli raccolti in esili treccine. Cammina con due stampelle e ha una muscolatura possente.
Dovrebbe iniziare una profilassi perché ha avuto un recente contatto con una persona con una tubercolosi polmonare bacillifera. Fa il mediatore culturale e parla l’italiano perfettamente. Si siede e ha la faccia corrugata. Molti ci guardano con sospetto perché hanno visto cose che nessuno di noi può neanche immaginare, e allora per loro prendere delle medicine quando in realtà ‘sono forti’ è una cosa che non possono comprendere. È la nostra parola e basta, parola di occidentali in camici bianchi che sorridono. Loro credono ai dottori ma non credono molto alle medicine. Credono che vogliamo dare una mano ma non capiscono perché togliamo loro un po’ di ‘anima’ con tutti i prelievi di sangue.
Majoudu (nome di fantasia) sta seduto lì davanti a noi con le stampelle in mano.
Ci guarda e sta in silenzio. Poi indica una foto sul muro.
“Chi l’ha fatta quella?” È la foto di un gruppo di bambini africani.
“L’ha fatta la dottoressa bionda. Va spesso in Africa, sai? Ti piace Majoudu?”
Lui sta in silenzio e fissa dritto davanti a sé.
“Ti piace?” ripetiamo col sorriso.
“No, non mi piace” e torna in silenzio.
Rimaniamo un attimo in silenzio anche noi, lievemente sorprese, con un’aria interdetta come chi ha chiesto a un bambino se crede in Babbo Natale e si sente rispondere che a Babbo Natale credono solo i fessi.
Decidiamo di far finta di nulla e iniziamo a spiegare come si prendono le medicine.
“Allora Majoudu, vedi queste pillole color arancione?”
Ma Majoudu non sta guardando le pillole arancioni. Fissa il vuoto, finché non inizia a piangere. Lacrime trasparenti scivolano lungo le guance.
“Majoudu, cosa succede?” chiede la mia collega. Ma Majoudu non risponde.
Guarda la foto dei bambini e piange, inizia rapidamente a singhiozzare. Infine, alza lo sguardo e mi fissa con gli occhi velati di lacrime.
“Posso uscire un attimo?”
“Sì, certo.”
Si alza lentamente dalla sedia e zoppicando ci lascia in un silenzio incredulo. Guardo le foto dei bambini sorridenti appese alla parete. Scorro rapidamente gli occhi sul referto di Majoudu. Ha soggiornato, come troppi altri, in Libia per mesi e se lo spogliassi sono certa che troverei le cicatrici di quel periodo. Sono tutte molto simili, come binari che tagliano la vita di queste persone a metà. Molti mi dicono che hanno preso troppe botte in testa e che non sanno più cosa significa non avere mal di testa. Altri si limitano ad avere lo sguardo di chi ha smesso di dormire per sempre.
Siamo ancora in silenzio nell’ambulatorio, un silenzio adesso quasi imbarazzato. Mi chiedo cosa abbia visto negli occhi di quei bambini e cosa non riesco e non posso vederci io.
“Sentite lo visito nell’altro ambulatorio dove le foto non ci sono”.
La mia collega si alza e chiama Majoudu nella stanza senza foto. E noi rimaniamo immobili nella stanza dei sorrisi alle pareti.
In soli cinque mesi mi sono capitate così tante storie come quelle di Majoudu. Ho incontrato tutti gli occhi con cui ci guarda il mondo in quell’ambulatorio. Il mondo pieno della sua bellezza e colmo di tutto il suo dolore. Il mondo che sputa sangue, il mondo con le sue caverne e i suoi alberi in fiore, con le lacrime, le risate, le cicatrici della pelle e dei polmoni, il mondo dei sorrisi e dei ‘Grazie’ delle persone che ci sforziamo di far tornare a respirare.
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