06/04/2021
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Salta su e giù agile come uno scoiattolo, appunto, fino a sparire nella nuvola odorosa e inebriante del glicine fiorito proprio sotto la mia terrazza. Il tronco del glicine, contorto eppure armonioso, è aggrappato a pilastri di cemento che dovevano sostenere chissà che cosa nei tempi d’oro dell’ospedale.
“Primario, è pronto il caffè!”. La voce della caposala mi sveglia da un sogno.
Credetemi, è traumatico passare da uno studio di 12 metri quadri, con finestra sul traffico di viale Zara, a uno studio di 64 mq con terrazza, sì quella su cui prendevano il sole i pazienti, con scrivanie, salottini, biblioteche e arredi anni ’50… e ti portano pure il caffè.
Luglio 2000, caldo torrido, giornate splendide, di quelle con il cielo così terso che tutto sembra bello, anche un ospedale.
In realtà il ‘Villaggio’ di Sondalo è bello: un capolavoro di ingegneria e di architettura, una imponenza e una ricercatezza nei particolari che ti fanno capire subito che dietro c’era un pensiero, un’idea, un progetto studiato nei minimi particolari, mica come adesso…
Ci avevo pensato un bel po’. Non era una scelta facile. Abbandonare Milano con le sue sicurezze, un lavoro conosciuto, collaudato, ma soprattutto era un cambio di vita: diventi pendolare settimanale, lasci la famiglia con figlio adolescente, affronti un lavoro nuovo, il fascino e la difficoltà della corsia.
Dopo più di 25 anni di medicina territoriale vedi la malattia nei suoi aspetti più intimi e ostili, vedi il paziente allettato, impari a conoscerlo nei lunghi periodi della degenza, lo vedi star male, qualche volta morire.
Vedi anche l’’altra’ tubercolosi.
I colleghi sono bravi, esperti, simpatici, disponibili, come li vorresti. Solo tu Massimo, mi hai fregato subito, manco il tempo di diventare amici, e lo saremmo diventati, che te nei sei andato su quella maledetta statale 36, manco il tempo di salutarci.
Saverio, Piero, Ruggero, tutti mi danno una mano incredibile così come tutto il resto del personale, a cominciare dalle infermiere, valtellinesi, instancabili, preparate e sempre gentili, come le vorresti.
E il personale amministrativo, dai direttori all’ultimo degli impiegati, sempre disponibili, mai avversi, come li vorresti.
Un sogno, dunque, durato dieci anni, fatto di una vita che si costruisce in un microcosmo dove tutto ruota attorno all’ospedale, tutto ruota attorno ai malati, e poi tutto ti ruota attorno. È lì che ti rendi conto di essere potente…
Per sei mesi non prendo nessuna decisione, mi guardo intorno, scrivo, registro, vedo, voglio conoscere. Solo dopo comincio a fare. La prima cosa, figlia del lavaggio di cervello che ti fanno ai corsi manageriali, è scrivere il ‘manuale del reparto’. Chi fa cosa, come, quando, perché, responsabilità, obiettivi, sicurezza, privacy e quant’altro. Lavoro preso con una qualche riluttanza dal personale di reparto: “A cosa serve sta roba? Lo facciamo già!!”, con molto entusiasmo dalla Direzione Sanitaria, che lì ai confini dell’impero, cerca di mettersi al passo con il resto della Lombardia.
Ma soffro, questo non è il lavoro che piace ai medici, manca il malato, manca la discussione clinica, manca la soddisfazione della guarigione, e anche il dolore della sconfitta.
Per fortuna, nelle lunghe giornate di lavoro arriva la sera, quando tutti se ne vanno e restano solo i turni, allora te ne vai in corsia, a vedere i malati che frettolosamente hai già visto al mattino con i colleghi che tanto sanno cosa fare, ti puoi fermare a parlare, a sentire le loro storie, puoi raccontare la tua.
Non so perché ancora oggi mi ricordo nomi e volti di alcuni pazienti e non di altri. Perché proprio quelli? Che cosa mi ha colpito di loro? La loro storia? Il loro volto? O la loro sorte?
No, il tuo nome non lo ricordo, so solo che avevi 20 anni e venivi dal Sud, che avevi una tubercolosi multiresistente non facile da curare, che ogni mese affrontavi il lungo viaggio per fare i controlli, che quel pomeriggio avresti dovuto tornare a casa, che ti ho trattenuto e fatto ricoverare perché c’era qualcosa che non andava ma tu eri tranquillo, sereno, parlavi con Therese, te la ricordi Therese? eravate ricoverati insieme sei mesi fa. Poi all’improvviso hai scelto di volare. Quando sono arrivato in ospedale perché Saverio mi aveva chiamato, il tuo corpo era ancora lì, sul marciapiede, coperto da un lenzuolo, solo.
Therese, sì il tuo nome lo ricordo, anche il volto, mio Dio… anche la ‘lastra’!
Senti, sei stata ricoverata per tante di quelle volte e per un sacco di tempo, che sarebbe impossibile non ricordarti.
Ti avevo conosciuta addirittura a Milano, a Villa Marelli, ancora giovanissima e già da tempo ammalata, ci abbiamo messo un bel po’ di anni ma ce l’abbiamo fatta. Non so se sei tornata in Costa d’Avorio; eri in gamba, avevi tutte le carte in regola per inserirti, e scommetto che ora stai bene, in tutti i sensi.
Voglio ricordare soprattutto i tuoi occhi, quando dopo la visita o aver fatto due chiacchiere, ringraziavi chi ti curava, chi ti assisteva, chi ti dava una medicina. Ringraziavi solo con gli occhi, quando si usciva dalla stanza e ti si lasciava sola.
Giovanni, Giovanni, tu non ce l’hai fatta… per quanti anni ci siamo conosciuti? Negli anni ’80 a Milano, in ambulatorio, poi a Sondalo, i tuoi ricoveri ripetuti fino a quello finale durato 14 mesi. Ma perché? Perché eri sempre così dolce e remissivo, come se la tua malattia fosse una cosa normale da accettare e basta, perché non ti sei mai incazzato per una vita che non hai mai potuto vivere? Sei morto solo, ma come dicevi tu, la tua famiglia eravamo noi.
Già, la solitudine. Sembra essere ineluttabile per un malato di tubercolosi, costretto prima all’isolamento, poi allo stigma che accompagna la malattia: tutti mi evitano, io sono infetto e non posso stare con gli altri, nessuno mi vuole ecc. ecc. ecc.
Qui a Sondalo fortunatamente no, siamo tutti sulla stessa barca, chi da una parte e chi dall’altra, ma sempre la stessa barca. E allora tu malato ti senti un po’ meno solo, puoi condividere le tue paure, i tuoi problemi con gli altri pazienti e sei sicuro che ti capiscono perché anche loro hanno le tue stesse paure. E in fondo anche tu medico, infermiere o inserviente, costretto a vivere in questo microcosmo stretto, scomodo e sempre uguale, non sarai mai solo. Perché questo microcosmo, il sanatorio, è affascinante.
E io ringrazio la sorte per aver potuto fare nella mia vita un’esperienza simile, di aver ‘subìto’ questo fascino, di avere raccolto volti, storie, racconti che ti fanno crescere e vivere i problemi della vita in modo più lieve e disincantato.
Sono stato fortunato.
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