“COLPI DI TOSSE” di Annarita Botta e Alberto Vittone

31/05/2022

T… B… C…

Non è così che Tommasino ha imparato a dire l’alfabeto. Forse per questo, oggi, Tommasino sente tutta la violenza di quelle tre lettere. Perché oggi la lingua in bocca resta sospesa, incerta e deve decidere: restare il più possibile lontana dal palato senza ostruire il passaggio dell’aria o

… T… B… C…

Quelle lettere oggi scoccano – strano – con implacabile puntualità. Eppure, a Tommasino hanno insegnato che bisogna partire in un altro modo: a bocca aperta, prendere un bel respiro a pieni polmoni e poi via. Una lettera dopo l’altra, il resto verrà da sé. Oggi, invece, la lingua sceglie di andare a sbattere sui denti (… T…) ed è quella ferocia che, turbato il sigillarsi delle labbra prima (… B…), va poi a sconquassare l’altrimenti delicato tocco al di là degli alveoli (… C…). E a rovinare tutto il resto. Per questo Tommasino è sicuro che non è così che va detto e che al contrario bisogna fare come quando si sta per andare sott’acqua e raccogli nei polmoni tutta l’aria che puoi e

era in quell’acqua profondissima in cui non riusciva a risalire in superficie né toccare il fondo. Respiri, signora, respiri. La voce della dottoressa precipitava sulla sua espressione assente. La lingua restava attaccata al palato, ansimava. Perché guarisse, i farmaci avrebbero dovuto colorare di rosso tutto ciò usciva da lei: lacrime, urina, sudore. In quei primi giorni, si sentiva persa. Lei pure, però: dipingeva; isolata: dipingeva. E riversava sul bianco l’estremo compianto verso la sé di un tempo. Da dietro il vetro l’avresti vista spruzzare il carminio e ricreare con la sua pittura l’elaborata tessitura dell’espettorato sulla carta igienica. Nel suo stillicidio vermiglio, il colore consumava la tela. Rosso: come quando ti manca il fiato, come quando… ora era ormai una cosa sola con quel rosso. Nove mesi è il tempo della vita, lei li avrebbe dunque impiegati per non morire. Avrebbe ingoiato otto volte al giorno il monito doloroso che era malata di tubercolosi, e che non sarebbe più tornata quella di prima (poi le pasticche sarebbero state meno, ma…). Che dovunque fosse andata, le striature dei tramonti e il rame delle grondaie avrebbero portato, per sempre, il segno della

Rifampicina!

ormai Tommasino pensa sia inutile farsi troppe domande: oggi sembra davvero che tutti abbiano preso la cattiva abitudine di stravolgere le sue poche certezze e di confonderlo col loro strano modo di dire le cose. Quante nuove e misteriose parole oggi! Tommasino vorrebbe impararle tutte. Ma ha paura. Perché mentre percorre il sentiero di neon (TBC… – anche le lancette hanno ceduto), all’udire l’arcana sequenza è tutto un sussulto! e un gemito! e un dire “Ma come ma come, non può essere non può”. Eppure, è: anzi, che sia proprio non c’è alcun dubbio. Perché zia Katia è lì (TBC…) dietro quel vetro. E Tommasino la vede dipingere ma – ma che sguardo triste! Forse neanche a lei piacciono tutte quelle nuove parole, e tanto le fanno paura che si è voluta chiudere dentro una stanza. Ah, vedi te vedi te, sempre un passo avanti, la zia Katia: Tommasino vorrebbe essere come lei. Sì, perché lei deve essere una fata, una fata di quelle che lui sa bene, che magia dopo magia si fanno diventare rosse persino

le lacrime non scavano solchi:

aprono squarci. Come le forbici di Fontana, quando recidono la tela. Il tempo ci squarcia, pensava, e poi ci scuce, sfaldando quel poco che rimane di noi. Intanto, la voce della dottoressa giungeva ovattata: curiosamente, poi, rimbombava nella sua testa come un limpido stridore funereo. Si sentiva schiacciata dalla colpa di aver vissuto, di non aver capito prima, di aver esitato. Ed ora sarebbero stati forse altri a pagare la sua noncuranza. Perché forse il marcio non se lo era tenuto dentro, dove era giusto e sacrosanto restasse. Aveva vomitato la tubercolosi addosso a chi le era stato accanto ed ora sul carminio incombeva anche il nero. Sulla tela il nero si sarebbe visto sempre, qualunque sfumatura gli avesse affiancato. E come ora lei vedeva in tutto il rosso, così tutti avrebbero visto il nero in lei. L’untrice. Ma forse qualcosa si salva, ma forse il colore rimane… Una stanza senza finestre era in fondo la giusta punizione: un antro dove accroccarsi nella propria solitudine, il tempio del tempo sospeso, che ci scuce e si consuma

nella spenta allegrezza della sera, a Tommasino torna

vivo il ricordo dei fiori del salotto che si specchiano nelle tele della zia Katia. Colte di sorpresa, le margherite devono essersi certo indispettite per quei ritratti così sfrontati. Ma Tommasino sa che alla zia non importa: anche se tutti i fiori del mondo la lasciassero sola, lei avrebbe sempre sé stessa. Per un attimo la rivede: esita (ora, sfibrate, tutte le orchidee del salotto si rivoltano contro quella brutta tosse che ha trascinato nei suoi guizzi la tempera). Ma poi (mentre loro disperano dei contorni rovinati) ecco che invece la danza riprende: le dita si abbandonano a quella sopraffazione tirannica, la fanno come propria e alfine seguono il movimento di tutto il corpo. Il colore anche desiste, sgocciola e singhiozza, affida le sue linee al suono raschiante del catarro. E così, ad ogni convulso sussulto, la mano cambia percorso e si arrende a quel labirinto di linee sbagliate. Che meravigliosi quadri allora, meravigliosi davvero zia Katia! Quel contagio… mamma e papà! quello sì che è un contagio: di luce e colori e linee, che

colmano

il vuoto dell’attesa incombeva sull’inframezzarsi degli attimi. E incombendo, li riempiva. Sentiva un fremito farsi strada nei polmoni a pezzi. Immersa nella solitudine del deserto che attanaglia l’animo al buio orrido della sera, pensava a Modigliani, a Gozzano, a come loro, nel tempo sospeso, avessero dato un senso alla loro malattia

Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia,

se già la Signora vestita di nulla non fosse per via

consumati in ogni loro parte, avevano trovato sé stessi nella malattia che avanzava. E anche lei aveva finito per ingurgitarla fino a identificarsi in essa. Nella sua implacata voracità, aveva permesso che il tempo della tubercolosi diventasse il suo tempo. E che lei diventasse la tubercolosi. Ma quanti prima di lei! E poi, lacerazione dopo lacerazione, aveva finalmente raggiunto la religiosa consapevolezza che la tubercolosi era in realtà tutti loro. Loro: uniti dal destino di essere lasciati con null’altro che il dono illusorio dell’annullamento di sé. Loro: condannati allo stordimento dell’abitudine, alle menzogne dell’assuefazione. Al senso di colpa.

Oggi la TB è una malattia guaribile, meglio questo che altre cose.

Ma allora, perché questo, perché a lei. Da giorni perseguiva senza tregua la ricerca della ragione profonda del suo dolore. Additava quelle settimane, il tempo perduto, e poi si voltava ai giorni futuri, al marchio che avrebbero portato per sempre, o ancora rinsaviva e vedeva nell’oggi la sua miseria giacere nella bianca desolazione della stanza. Sulla tela, intanto, il nulla. Ed era così tutto un contorcersi e un dimenarsi, un insaziato sviscerarsi perché: perché qualunque volto del tempo interpellasse, sempre restava irrisoluta la questione più urgente. Che diritto aveva lei di stare male se, nella disperazione, ancora e a ragione lei pure poteva

sperare che tutti guariscano:

Tommasino non riesce a pensare ad altro. Gli hanno raccontato che anche i bimbi più poveri, del “terzo mondo” spesso… TBC… Tutti quei bambini che vede affollare le pagine assolate delle riviste di papà! a Tommasino sembrano uguali a lui, in fondo. E forse proprio per questo la gola gli si secca e tutta la saliva gli va negli occhi quando pensa che loro al posto dei polmoni hanno due bei grandi buchi. T… Oggi Tommasino si sente risucchiato da quei buchi, pensa che non riuscirà mai a uscirne. Giù, giù, sempre più giù, e prima che se ne possa accorgere (… B…) è già troppo tardi. Oggi Tommasino rimpiange il tempo in cui la sua unica preoccupazione era una lettera fuori posto – … C… Si sente scoppiare la testa, e il rimbombo non si ferma, non si argina, non tace. Perché lui ha capito che in quella stanza la zia Katia ci è finita per salvare tutti loro dai suoi buchi e perché non venissero trascinati dentro anche lui, e la mamma e il papà e

… TBC…

Oggi Tommasino piange. Perché è vero, ancora non capisce tutte quelle parole (Rifampicina e Multiresistenti e poi Delamanid e poi Pretomanid e…), ma proprio per questo vorrebbe che finissero loro nel buco nero (giù, giù e tanticarisalutitbc). E vorrebbe che la facessero finita di suonargli nelle orecchie perché Tommasino, oggi, è stremato ed è sicuro di non potercela fare

+++ passo dopo passo si diradavano. Una volta scomparsi dalle

analisi, non sarebbe stata più contagiosa. Così, pazientemente assorta, attendeva il loro dipartirsi e posava il suo sguardo torpido e opaco sulle cose e le vicende del mondo. Ogni settimana, assisteva silente alla conta dei + e ascoltava la dottoressa pronunciarsi sullo stato del suo espettorato. Anche le pasticche diminuivano. Ora dal pennello era passata allo spazzolino. Vi apponeva il colore e sfregando il dito sulle setole spruzzava quegli ultimi residui di sé. Da sopra, il neon imitava l’intermittenza del colore. E così, in questo sommesso operare, lei risorgeva. Trascinata dalla risacca, aveva alfine superato lo scoglio, e ora fluiva libera, dando nuovo impeto al suo corso. Goccia dopo goccia, deflagrava in lei la presa di coscienza che sarebbe stata per sempre una sopravvissuta. Ma andava bene così, andava – Nel sottofondo dell’affannosa routine ospedaliera, di quel brulicare di medici e infermieri, sentiva di essersi ritrovata, e perdonata. E godeva, ah godeva di quella assurda debolezza! e più si lasciava andare più si sentiva forte e robusta. Tremante, la mano a fatica si apriva nell’ultimo sforzo, nell’ultima, la più importante sfida contro

il tempo si fa uno solo

stasera, e uno spiraglio s’apre nei tramonti sospesi sull’ospedale. Diresti che qualcuno ha teso un drappo di porpora in cielo. Le mani scure della notte piano piano lo stanno trascinando via, portando con sé l’ultimo sparuto candore delle nuvole. Là dove il corridoio si perde, una stanza resta vuota.

Vuota, certo, ma pure, tra le gocce di colore a terra e tra il riflesso del neon che traspare nel vetro, penseresti di avvertire come una presenza, sospesa. Poco lontano dalla stanza, sul pavimento, è poggiato un quadro. Pur girandolo e rigirandolo, chiunque farebbe fatica a dire cosa vi è rappresentato. Forse tutto quello che avrebbe potuto essere (ma non ci scommetteresti). Forse niente di quello che è stato. A forza di guardarlo, sembrerebbe farsi avanti un sentimento di angoscia, come – ma stasera no. Non questa sera così perfetta, di rosso, di nero, di bianco e di vuoto, qualcuno vorrà violare il silenzio di un palpito di pace. Il primo dopo lungo tempo. Di fronte al quadro, siede una dottoressa. Poggia la testa sulle mani chiuse a bocciolo. Sulla tempia, si scorge una vena pulsante. Pur senza le sopracciglia aggrottate, basterebbe quella per dire: sta pensando. A cosa? Non si sa. Ma giureresti che in quegli occhi persi tra i contorni delle piastrelle al di là del quadro si formi e disformi la figura di una donna, e di un bambino che la osserva da lontano. E se poi ti sforzassi ancora, scorgeresti in quel tremolio della gamba come uno stupore per qualcosa che è successo, di inatteso, inaspettato. Il piede ora prende a muoversi ritmicamente, come cercasse di riprodurre una strofa, o una cantilena. Alzi gli occhi: sfiorandosi lente, le labbra sembrano scandire, una dopo l’altra, le lettere dell’alfabeto.

Annarita Botta

Alberto Vittone

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