“IL BUCO NEL POLMONE” di Elisa

30/04/2020

 

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Mi chiamo Elisa, ho 17 anni. Abito nella provincia di Caserta e ho due origini. Mia mamma è del Kenya e papà italiano. Io sono nata in Italia. Questa è stata la mia esperienza con la TBC: ricordo bene quando i primi sintomi si manifestarono… Iniziò tutto con la febbre alta per una settimana e un po’ di tosse. Il mio medico di famiglia, dopo l’esito di una radiografia del torace, mi disse che era una semplice bronchite e mi diede degli antibiotici. Finita la cura la febbre continuava a comparire per uno o due giorni e poi scompariva. Per un mese intero continuai a tossire e a sentire dolori al fianco destro mentre camminavo e facevo fatica a respirare.

Pensai che fosse dovuto al fatto che non facessi alcuna attività fisica. Decisi così di camminare di più per vedere se il dolore al fianco passava ma senza beneficio. Andai dal medico di famiglia e glielo dissi un paio di volte. Ogni volta mi diceva che non era niente, era un semplice strappo muscolare. Più il tempo passava, e più mi sentivo stanca, senza forze e con un terribile mal di schiena. Visto che stavo andando a scuola, pensai fosse dovuto al peso dello zaino e al cambiamento di clima visto che ero da poco tornata dal Kenya. Il dolore al fianco destro persisteva ma il medico di famiglia continuava a dire che non era niente. Anche la tosse peggiorava, tossivo tutta la giornata.

Tossivo così tanto a tal punto che mi sentivo distrutta e tendevo a mangiare una caramella forte o bere un po’ d’acqua per calmarla ma senza risultato. Il medico di famiglia decise di farmi fare un’altra radiografia del torace che evidenziò una broncopolmonite. Mi diede altri antibiotici in attesa di ripetere la radiografia dopo una decina di giorni. Nel frattempo però la tosse non finiva e ritornò la febbre per tre giorni. Papà mi portò all’ospedale di Caserta per farmi visitare da un pneumologo. Vedendo il caso anche lui concluse che era una broncopolmonite e mi consigliò di fare dieci iniezioni e di continuare con gli antibiotici orali. Dopo la cura ripetei la radiografia il cui risultato sbalordì tutti perché niente era cambiato, era identica a quell’altra.

Lo pneumologo concluse che forse si trattava di una broncopolmonite o calcificata o cicatrizzata, ma non sapeva spiegarsi tutto ciò. Mi disse di fare una TAC e nel frattempo mi diede altri antibiotici. La cosa strana era quando prendevo gli antibiotici perché la tosse diminuiva ma una volta finita la cura tutto tornava come prima. Non avevo perdita di peso, anzi avevo più appetito e non ero scolorita, stavo apparentemente bene. Questo stranì i dottori. Ma le piccole fastidiose formiche che sentivo al fianco destro e la stanchezza c’erano sempre. Una volta usciti i risultati della TAC li portarono dallo pneumologo che quando lesse il referto e vide le immagini sul computer non capì. Mi fece vedere cosa stava guardando ma non capii: sul mio polmone destro c’erano due cose nere che sembravano buchi. Lo fece vedere ad altri due dottori che dissero di non aver mai visto una cosa del genere. Mi ricoverarono immediatamente. Non capivo cosa mi stesse succedendo né perché nessuno riusciva a capire cosa avessi. Quando mi ricoverarono pensai che era arrivata l’ora di andare all’aldilà. Mi fecero di nuovo tutti gli esami tra cui l’espettorato e nel frattempo mi stavano dando degli antibiotici per via venosa. Appena mi ricoverarono mi fecero una puntura sul braccio e mi dissero di non lavarlo e non grattarlo per i giorni successivi. Non sapevo cosa fosse questo esame e quando chiesi informazioni mi dissero che era come un vaccino. Quattro giorni dopo lo pneumologo passò e controllò il braccio dove mi avevano fatto il test, era gonfio e lo misurò. Il giorno dopo tornò, fece la stessa cosa e disse “positivo”. Io capii che dicendo positivo intendeva dire che andava tutto bene e chiamai subito papà contenta e glielo dissi. Lui però non era contento e lì mi preoccupai. Dissi a due infermieri cosa lo pneumologo mi aveva detto e feci vedere il braccio. Sulla loro faccia avevano espressioni dispiaciute e mi dissero che era la tubercolosi. Nel reparto di pneumologia ero l’unica piccolina, tutti gli altri erano anziani e quindi tutti gli infermieri e dottori simpatizzarono con me, e la cosa non mi fece sentire tanto triste.

Quando mi dissero quella parola… tubercolosi, ero incredula. Avevo la TBC al polmone destro. Erano passati ben 4 lunghi mesi prima che lo scoprissero. Non riuscivo a darmi spiegazioni; ero rimasta male perché papà e gli altri non mi avevano detto subito che il test che mi avevano fatto sul braccio era per la TBC. Il giorno successivo andai a fare la broncoscopia che per me rimarrà la cosa più brutta di tutte. Era come se la mia vita stesse finendo e non avevo il potere di fare niente. Mi sentivo triste, sola e continuavo a chiedermi perché a me. Dopo due giorni, mi trasferirono all’ospedale Cotugno di Napoli e mi misero nel reparto di malattie infettive-tisiologia perché non potevo più stare all’ospedale di Caserta, non essendo specializzati in quel campo.

Il mio primo giorno al Cotugno fu triste. Ero abituata all’altro ospedale e agli infermieri che ci lavoravano, mi ero affezionata, qui invece non conoscevo ancora nessuno.

Fortunatamente nella mia stanza c’era una giovane donna e iniziammo subito a parlare. Il secondo giorno mi fecero tutti gli accertamenti, la TAC, l’espettorato e dopo essere certi di cosa avessi iniziai la cura. Iniziai a conoscere gli infermieri e i dottori. Iniziai ad abituarmi anche qui. Erano tutti molto carini con me e anche affettuosi. Qui imparai bene cosa fosse la tubercolosi. Ogni giorno veniva un infermiere a parlare con noi e a rispondere a ogni nostra domanda. La cosa che mi terrorizzò fu quando mi dissero che comunque uno avrebbe potuto avere una ricaduta. Mi spaventò anche il fatto di dover prendere tutte quelle medicine per otto mesi, pensai di non farcela. Ma capii che bisognava essere sempre positivi, sorridere, andare avanti, perché solo noi stessi possiamo prenderci cura della nostra vita, nessuno può farlo per noi. Capii che alla fine uno poi guarisce, che avrei dovuto accettare la malattia perché tutto ciò che succede, non succede a caso, ma per una ragione. Iniziai a tossire di meno anche se avevo ancora l’affanno. Piano piano però la mia tosse andò via. Passavo i miei giorni a guardare la TV, ascoltare la musica, scrivere e fare quattro chiacchiere. Nella mia stanza mi capitò un’altra compagna giovane e feci subito amicizia con lei e con un’altra persona ancora. Passavamo la sera insieme a parlare, a scherzare e fu questa unione a darci più forza. Quando mi dimisero e dovetti andare via piansi un sacco perché ormai qui al Cotugno mi sentivo a casa, mi ero affezionata tanto e avevo paura di affrontare ciò che avrei trovato fuori, perché le cose non erano più come prima. La gente si era allontanata e sentivo tutti contro di me. Il dottore mi disse di vivere normalmente. Negli otto mesi successivi andai tutti i mesi per fare un controllo.

I primi mesi a casa erano tristi perché non mi sentivo ancora bene al 100%. Ero triste perché non avevo nessuno, vedevo ragazze della mia età felici e spensierate mentre io non ce la facevo nemmeno a camminare a lungo perché mi sentivo subito stanca. Fortunatamente dopo un po’ iniziai a sentirmi meglio e mi sentii sollevata ma pochi giorni dopo iniziai ad avvertire i battiti del cuore accelerati. Come sempre ogni fine mese andavo a fare un controllo. Il dottore mi chiedeva come stavo, cosa sentivo, controllava la schiena e il peso ogni volta. Era sempre molto disponibile, di una grande bravura e tanto simpatico. Gli sarò sempre grata. Quando gli dissi che avevo i battiti accelerati mi fece subito fare una visita cardiologica e lì scoprirono che ho una flail.

Mi sentii buttata a terra di nuovo. Sembrava che avessi fatto cento passi in avanti e d’un tratto mille indietro. Mese dopo mese, visita dopo visita, sempre precisa e puntuale, gli otto mesi passarono. Il buco del polmone migliorò. Ora posso finalmente dire che mi sento bene. Sono tornata alla mia vita di tutti i giorni con accanto nuovi amici. Questa esperienza sarà indimenticabile ma come tutte le esperienze, belle o brutte, ci insegnano qualcosa. Questa mi ha insegnato a non sottovalutare niente, a vivere ogni giorno della vita come se un domani non ci fosse e che i problemi non sono eterni, prima o poi passano. Soprattutto mi ha fatto capire che la vita è una continua battaglia ma solo chi lotta sempre, senza mollare, può vincere.

 

 

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