“IL DOGMA DELL’EMARGINAZIONE” di Antonio Migliaccio

30/04/2020

 

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Penso che se chiedi a una persona comune cos’è la tibiccì, ti risponderà che è una malattia che non esiste più, o che è una malattia presente solo nel terzo mondo. Una domanda che, se l’avessero fatta anche a me qualche anno, fa prima di iniziare il percorso di studi in infermieristica, avrei risposto allo stesso modo.

Invece oggi mi ritrovo a lavorare in un reparto di malattie infettive respiratorie dell’Ospedale Cotugno di Napoli, centro di riferimento per le malattie infettive del Sud Italia, dove ogni giorno vivo storie di disperazione, povertà, discriminazione sociale e isolamento. Per questo oggi potrei raccontare la storia di un senza tetto, di un immigrato, di un nomade… ovvero quel tipo di paziente appartenente ad un ceto sociale che la tibiccì predilige, perché la tibiccì, si sa, è la malattia della povertà, della malnutrizione e della scarsa igiene.

Invece la storia che vi racconterò riguarda il Dottor T., che così chiamerò nel prosieguo del mio racconto. Il Dottor T. è un medico specialista in pensione che continua a svolgere la sua attività nell’ambulatorio di un centro privato, dove segue pazienti da una vita intera e da dove dispensa quotidianamente ai sui clienti visite e consigli.

Il Dottor T. da anni è affetto da artrite reumatoide, una malattia autoimmune cronica invalidante che provoca dolori, tumefazione e rigidità nelle articolazioni del corpo, ma nonostante tutto il Dottor T. ha continuato negli anni a svolgere la sua attività con grande passione e dedizione.

Da qualche tempo sono entrate in commercio delle terapie innovative per la cura dell’artrite reumatoide (le cosiddette terapie biologiche) che, associate al cortisone, permettono di vivere una vita decente senza dolori acuti.

Cosi per qualche anno il Dottor T. ha tratto beneficio da queste terapie e pensava che tutto sarebbe andato per il meglio. Ma si sa che questi trattamenti sono un’arma a doppio taglio, in quanto presentano il severo rischio di riattivare batteri e virus che erano rimasti tranquillamente latenti, e uno di questi è proprio il micobatterio della tubercolosi.

Per il Dottor T. è stato un fulmine a ciel sereno. Tutto iniziò come una ‘normale bronchite’, ma col passare del tempo non registrandosi miglioramenti, si decise di passare dalle radiografie del torace alla TAC e ad altre indagini, che portarono alla diagnosi di tubercolosi. Il Dottor T. mai si sarebbe aspettato che la tibiccì entrasse nella sua vita.

E venne anche il giorno del ricovero in isolamento nel reparto dove lavoro, perché il Dottor T. era risultato altamente contagioso. Sì, proprio l’isolamento, quello dove per ventiquattro ore su ventiquattro sei rinchiuso in una stanza d’ospedale e le uniche persone che vedi sono infermieri, operatori socio-sanitari e medici. E anche loro solo per pochi minuti.

L’isolamento è quella misura precauzionale che permette di ridurre al minimo il rischio di trasmissione degli agenti patogeni ad altre persone. E queste persone comprendono i tuoi familiari, sì… proprio quelli che dovrebbero starti più vicino in quel momento di debolezza e ai quali viene impedito ogni contatto, come da protocollo preventivo. Questo è successo anche al Dottor T. Ho infatti notato che, nel corso di tutta la sua degenza, non veniva nessun famigliare a fargli visita. Lui trascorreva le sue giornate leggendo libri, guardando la televisione, compilando cruciverba, ma mai nessuna visita. Sporadicamente veniva la moglie a portare degli indumenti di ricambio, ma non entrava mai in reparto. Anzi, chiedeva a noi infermieri di uscire dal reparto e ci consegnava i vestiti, ma senza mai avere alcun contatto col marito.

Il percorso assistenziale del Dottor T. è durato circa trenta giorni, tra continui prelievi e somministrazioni di farmaci endovenosi ad alta tossicità epatica. Sempre in isolamento. Col passare del tempo il Dottor T. iniziò a rispondere alle terapie, fino ad arrivare all’ultimo controllo degli espettorati, che risultò negativo, con conseguente dimissione.

Passato qualche mese ho ritrovato il Dottor T. in ambulatorio dove si era recato per il follow up del caso. Fui molto contento di rivederlo e mi avvicinai per salutarlo, per chiedere come stava e se fosse ritornato alla routine quotidiana lavorativa/familiare. Gli chiesi anche quale fosse stato l’aspetto peggiore della sua esperienza e la risposta fu: ‘i trenta giorni di ricovero in isolamento sono stati i più duri da affrontare. Essere emarginato da ammalato è bruttissimo, ma da operatore della salute ne capisco la necessità. Invece, essere isolato quando sai di essere guarito è ancora più devastante, specie se a farlo sono i tuoi cari. La mia famiglia ancora oggi mi vieta di vedere mio nipote di sette anni, perché si ha sempre paura del contagio. Questa è la cosa più triste che mi porto dentro da questo mio percorso di vita’.

Per concludere, ho voluto raccontare questo caso per mettere in evidenza come ancor oggi la tubercolosi sia vissuta come una malattia che non riguarda la società moderna, ma che appartiene al passato e alla povertà. Molti pensano che non esista una cura definitiva e che il paziente debba convivere con la sua malattia per tutta la vita. Ancor oggi tanta gente, come i parenti del Dottor T., è convinta che non si possa guarire definitivamente dalla tubercolosi apportando così ulteriori e inutili sofferenze psicologiche agli ex ammalati.

Per questo ho scritto questa testimonianza sperando di aver contribuito, anche minimamente, a sfatare questa assurda credenza. E augurandomi che in futuro se ne possa parlare sempre di più, anche attraverso i social, per debellare gli assurdi dogmi del passato.

 

 

 

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