“LA TIBICCÌ IN TRINCEA” di Gianpaolo Mezzabotta

30/04/2020

 

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Per una singolare combinazione di eventi casuali e di scelte personali perseguite con caparbietà, capita che la tubercolosi, o tibiccì, abbia giocato e continui a giocare un ruolo molto importante nella mia vita. Provo a raccontarvelo.

La prima comparsa della tibiccì nella mia famiglia si deve a mia madre, giovinetta nella Roma città aperta degli ultimi anni di guerra così realisticamente affrescata da Rossellini nel suo film. Pure se non tra quelle più duramente colpite dalle privazioni della guerra, anche la famiglia di mio nonno Cesare non se la passava certo bene in quegli anni. Dei racconti di mamma su quel periodo mi sono restati in mente alcuni dettagli pittoreschi (il caffè fatto con la cicoria, il ‘coniglio’ ogni tanto sulla tavola ma sempre senza testa, l’orto di guerra, la tessera annonaria e le tresche della borsa nera) e altri più drammatici come le sirene d’allarme, il cielo solcato dai bengala e dai proiettili traccianti della contraerea, il rombo dei bombardieri e il ronzio, al confronto, dei caccia, e le corse verso i rifugi per ripararsi dai bombardamenti. All’inizio mi immaginavo i rifugi antiaerei come una specie di grande, accogliente e protettivo ventre materno. Oggi, con lo spirito del tibiccì-ologo mi domando se quei posti non fossero anche ambienti ideali per scambiarsi micobatteri e altri animaletti volanti. Come fu non so, ma mamma la tibiccì se la prese e nel 1945 fu ricoverata per alcuni mesi al Forlanini, allora rinomato sanatorio capitolino. Subì uno pneumotorace terapeutico di cui si portò da allora sempre appresso il ricordo sotto forma di anomalia radiologica, prontamente rilevata ogni volta che faceva una lastra del torace e della quale oramai era abituata a fornire spiegazione al radiologo di turno sempre più sorpreso della cosa.

Del periodo al Forlanini mia madre ci raccontava spesso del primario che fumava usando, come si dice, un fiammifero al giorno; della goliardia all’interno del reparto (in combutta col personale, si preparavano liquori e distillati vari) ma anche della sofferenza di molti ricoverati, intesa come dolore fisico alleviato con gli oppiacei e che sfociava talora in tossicodipendenza, se il paziente usciva vivo dall’ospedale. Una ‘Davos de’ noantri’, che differiva abbastanza dall’altero sanatorio della Montagna Incantata, risultando forse alla fine più umano e sopportabile.

Mia madre guarì senza sequele e generò tre figli ugualmente sani. Nonostante ciò, il nostro sistema nazionale di lotta alla tubercolosi, ancora attivo a quell’epoca (l’inizio degli anni ’60), fece sì che io e mia sorella potessimo accedere a una scuola elementare ‘all’aperto’ per bambini di famiglie colpite dalla tibiccì. In questa scuola, oltre a trascorrere le ore di ricreazione nell’ampio giardino, mangiavamo cibi sani e nutrienti – ricordo i fusilli al pomodoro scotti che allora mi sembravano una leccornia – e venivamo controllati periodicamente. In più, la scuola era, e ancora è, in uno degli angoli più verdi e incantevoli di Roma, in cima al Gianicolo, all’ombra del monumento ad Anita Garibaldi. Se vi capita di farci un salto vi renderete conto di quanta attenzione si dava allora alla prevenzione della tibiccì.

Sul fatto che io diventassi medico non c’era mai stato alcun dubbio. Non perché fosse una tradizione di famiglia – che anzi io sono il primo – ma perché mio padre ambiva molto lui stesso a farlo. Purtroppo le ristrettezze economiche familiari lo costrinsero a cercarsi un lavoro subito dopo la maturità e il sogno di fare il dottore fu accantonato. Tornò fuori, anche se per interposta persona, quando si rese conto di avere un figlio che andava abbastanza bene a scuola, era curioso e mostrava interesse per la scienza. Papà aveva fatto la guerra in Egeo e lì aveva contratto la febbre reumatica con danno valvolare – corretto nel 1969 al San Camillo con uno dei primi trapianti di valvola aortica eseguiti in Italia ma seguito dopo cinque anni da ictus con grave danno cerebrale, a soli 56 anni – per cui non sono affatto sicuro che si sia reso conto che mi ero laureato in medicina, quando questo avvenne, anche se era stato lui a volerlo quasi più di me.

Sin dall’inizio, diciamo pure dall’infanzia, la mia idea di fare il medico era coniugata con quella di farlo in Africa. Una pulsione che all’inizio non aveva niente a che vedere con le malattie tropicali e nemmeno con l’afflato umanitario, cose che verranno dopo. All’inizio era sostanzialmente l’idea della vita come avventura, scoperta, viaggio ad attirarmi. Convinto di voler intraprendere a tutti i costi la via dell’Africa, mi misi già prima della laurea a bussare a molte porte, a viaggiare per l’Italia e quindi a frequentare il primo anno della specialità in malattie infettive. Ci volle fatica e ostinazione, oltre al sostegno della mia famiglia, ma alla fine riuscii a realizzare il mio sogno e il 14 aprile 1985 partii per l’Etiopia come volontario in servizio civile con una ONG di Torino, il Comitato di Collaborazione Medica (CCM), ancora attiva oggi.

Il mio primo lavoro non era sulla tibiccì ma non se ne discostava troppo, trattandosi di coordinare la campagna di controllo della lebbra in una vasta regione dell’Etiopia meridionale. Le similitudini con la tibiccì non erano tanto nell’agente eziologico, pure un micobatterio, o nella terapia, fondata sulla rifampicina, ma soprattutto nel fatto che sia il controllo della lebbra che quello della tibiccì sono programmi di salute pubblica imperniati su strategie e obiettivi globali; sono condotti applicando procedure standardizzate e sono mirati a interrompere la catena del contagio attraverso l’intercettazione precoce dei casi e la loro messa in cura con un trattamento efficace. Di fatto, la maggior parte dei concetti che appresi durante il mio lavoro di leprologo mi tornarono utili più tardi, quando iniziai a lavorare con la tibiccì. E visitare ogni giorno decine di persone col sospetto clinico di lebbra o pazienti in trattamento, dopo aver guidato parecchie ore per raggiungerli, fu il mio ‘battesimo del fuoco’ di medico africanista. Ricordo bene le sessioni di educazione sanitaria che precedevano l’inizio delle visite mediche, rivolte ai pazienti seduti per terra di fronte a un piccolo centro di salute o, alle volte, all’ombra di un grande albero. Ricordo i lebbrosi con gravi mutilazioni dei piedi che arrivavano calzando stivali di gomma al cui interno il piede si macerava fino a deformarsi ma con i quali potevano almeno camminare; le mani ormai senza più dita che però avevano appreso a maneggiare un bicchiere con la destrezza necessaria a mandar giù le pasticche di fronte a noi. Ricordo le centinaia di chilometri di pista, polverosa o fangosa a seconda delle stagioni, divorati ogni giorno e le serate passate spesso in amabile conversazione con i missionari che mi ospitavano quando non rientravo a casa la sera.

Erano gli anni in cui l’Etiopia era scossa da carestie e siccità ripetute e prolungate, la povertà era diffusa ovunque e tra tutte le classi sociali. E la tibiccì ovviamente impazzava. Ma io, per contratto, non potevo occuparmene. Un primordiale ufficio del National TB Programme in realtà già esisteva all’interno del Ministero della Sanità, ma aveva un budget irrisorio e come staff solo un direttore. Questi fu invitato al meeting annuale del National Leprosy Programme del 1986 e, lo ricordo bene, ci implorò di integrare i due programmi, mostrando cifre che dimostravano come la tibiccì fosse un problema di salute pubblica molto più grave della lebbra. Ma la risposta fu un fiero e risoluto NO: allentare la pressione sulla lebbra mentre era in corso una campagna di eliminazione – dissero – ne avrebbe determinato il fallimento. E nemmeno lo sponsor europeo sarebbe stato contento. In pratica, l’appello dell’NTP etiope durante il meeting del 1986 non ebbe conseguenze concrete se non quella di convincermi che dovevo lavorare sulla tibiccì.

E alla fine questo avvenne. Completato il servizio civile e preso il diploma in medicina tropicale a Liverpool nel 1987, nel febbraio 1988 ottenni un contratto con la Cooperazione Italiana per un progetto di emergenza nel Nord Etiopia. Il progetto comprendeva la gestione di un grosso centro di salute dove si curavano, tra le altre cose, tibiccì e lebbra. Successivamente mi occupai di tibiccì in Tanzania, dove lavoravo per una ONG italiana (il CISP di Roma) come coordinatore della Primary Health Care in tre distretti rurali della regione di Arusha. Era il 1991 ed eravamo ancora agli albori dell’approccio standardizzato, dell’utilizzo della rifampicina e del trattamento assunto sotto osservazione diretta. Ma le cose erano in grande fermento. Nell’aprile 1993, ero stato da poco assunto come assistente medico dal Reparto di Infettivologia dell’Ospedale Santa Croce di Cuneo, riuscii ad accumulare abbastanza ore di straordinario per frequentare il corso sulla gestione dei programmi TB della Union, ironicamente di nuovo ad Arusha. Fu un colpo di fulmine: il DOTS, appena nato, mi conquistò a tal punto che scrissi una dispensa sul trattamento razionale della tibiccì per i colleghi del reparto di Cuneo. La cosa però non ebbe molto successo perché cozzava con l’approccio empirico seguito dal primario nei rari casi in cui ricoveravamo pazienti con tibiccì, e io fui redarguito per aver osato sollevare dei dubbi in proposito.

Nel luglio del 1995 ottenni l’aspettativa dall’ospedale e partii ancora una volta per l’Etiopia, adesso finalmente come capo progetto del grande e innovativo progetto della Cooperazione Italiana per la messa in atto della strategia DOTS in due zone dell’Etiopia centro-meridionale, l’Arsi e il Bale. Quando, dopo poco più di due anni, l’ospedale mi richiamò in Italia negandomi il rinnovo dell’aspettativa per esigenze di servizio, fui posto di fronte al bivio tra Africa e Cuneo, tra tibiccì e ospedale. Ovviamente scelsi di lasciare l’ospedale, il tanto ambito posto fisso con annessi e connessi, perché mi sembrava di aver trovato finalmente la strada maestra della mia vita. Il progetto TB in Etiopia funzionava piuttosto bene e, cosa più importante, stavamo riuscendo a dimostrare la fattibilità dell’approccio DOTS come strategia unitaria di lotta alla TB in tutto il Paese. L’Italia ha perso un mediocre infettivologo per un altrettanto mediocre ma almeno entusiasta specialista di tibiccì.

Volendo approfondire le conoscenze di salute internazionale, nel 1999 diedi fondo ai miei risparmi e mi iscrissi al master sul controllo delle malattie infettive presso la prestigiosa London School of Hygiene and Tropical Medicine. Conseguito il master, lavorai per circa un anno e mezzo all’Istituto Superiore di Sanità a Roma, come dire il ‘tempio della salute pubblica’ in Italia. Nel frattempo, però, avevo iniziato a perseguire un nuovo sogno, quello di lavorare con l’OMS. E alla fine, dopo molte domande di lavoro e contatti diretti con Ginevra, il sogno ebbe un esito felice: il giorno di San Valentino del 2002 ricevetti da Mario Raviglione, del Programma TB dell’OMS a Ginevra quella che lui stesso chiamò ‘la telefonata che ti cambia la vita’. Non mi offriva una poltrona a Ginevra ma, in linea col mio profilo professionale e attitudinale, un posto di TB Medical Officer a Kabul, nella sede dell’OMS appena riaperta dopo la recente sconfitta e cacciata dei talebani dalla capitale afgana. Si trattava di stare due anni lontano dalla famiglia in quanto Kabul era una delle ‘non-family duty stations’. In compenso entravo a un ottimo livello e con un contratto a tempo indeterminato da subito. Chiesi un po’ di giorni per decidere, anche perché per il giorno seguente avevo programmato la partenza per una settimana bianca sulle Alpi. Accettarono ma non mi diedero tregua. Ricordo distintamente le piste da sci fatte con in mano una racchetta e nell’altra il cellulare, mentre parlavo con l’ufficio OMS per il Medio Oriente. Rotti gli indugi e sistemati gli adempimenti burocratici, il 14 aprile 2002, a diciassette anni esatti dalla mia prima, grande ‘partenza’ per l’Etiopia, partii da Roma per Kabul. Questa volta fu più difficile staccarsi dalla famiglia: i miei due figli erano da poco adolescenti e con mia moglie ci stavamo ambientando nella nuova casa. Alla fine comunque i due anni passarono abbastanza in fretta, io imparai tante cose e trovammo una nuova casa dove poter vivere tutti assieme.

Per descrivere le esperienze professionali e umane vissute durante i miei 14 anni con l’OMS in sei diversi Paesi ci vorrebbero tante più pagine di quante ne consenta questa sede e quindi scelgo di raccontarvi solo una di esse tra quelle che ritengo più significative.

Da luglio 2012 a dicembre 2014, ho ricoperto la posizione di TB Medical Officer presso l’ufficio dell’OMS in Nepal. Un giorno di aprile del 2013 ricevo una mail urgente da Ginevra; la spedisce il mio direttore, Mario Raviglione. Ha ricevuto dai CDC di Atlanta l’informazione riservata che un giovane uomo nepalese è stato bloccato dalle guardie di frontiera degli Stati Uniti subito dopo aver varcato da clandestino il confine col Messico. Sottoposto agli esami clinici di routine, è stato trovato affetto da tubercolosi attiva del tipo ‘Estremamente Resistente’, la famigerata XDR-TB. Ovviamente questo fatto ha innescato una serie di azioni a catena, tra cui la notifica ai CDC. Mario è stato avvisato dal collega americano, Ken Castro, affinché le autorità sanitarie del Paese di origine vengano informate del caso. Il mio compito è quello di entrare in contatto con il programma di controllo della tubercolosi nepalese e organizzare l’indagine di campo per rintracciare eventuali contatti del paziente 0, ora detenuto negli USA per ingresso illegale ma al tempo stesso curato per XDR-TB.

In fretta e furia organizziamo la trasferta verso il villaggio d’origine del ragazzo. Saltiamo sulla jeep dell’OMS in cinque: l’autista, due membri nepalesi del mio team, un tecnico di laboratorio dell’NTP e il sottoscritto. Il paziente proviene da un villaggio di montagna, e quando si dice ‘montagna’ in Nepal vuol dire Himalaya. Queste foto del viaggio danno un’idea della sua asprezza.

 

Dopo un paio di giorni di viaggio raggiungiamo il villaggio da cui proviene il nostro caso 0. Si tratta di poche case distribuite attorno a un tempio buddista, secondo lo schema abituale dei villaggi della zona. Il Nord del Nepal risente molto, dal punto di vista culturale e sociale, della vicinanza del Tibet. Al contrario del resto del Paese, dove la popolazione è prevalentemente di fede induista, gli abitanti del Nord Nepal sono per la maggior parte buddisti e di etnia sherpa, quella diventata famosa per aver accompagnato tanti scalatori, più o meno leggendari, sulla cima dell’Everest. E anche nel villaggio del paziente 0 sono tutti sherpa. I miei avveduti colleghi nepalesi avevano pensato bene di comprare lungo la strada un po’ di cibo e frutta fresca per la comunità. Ma in Nepal, la spiritualità permea ancora fortemente qualunque azione umana e quindi la nostra donazione deve prima essere ‘benedetta’ dall’autorità religiosa locale, quella che gestisce la pagoda del villaggio. Le vettovaglie vengono consegnate in maniera formale al monaco capo e poste su di un altare dentro la pagoda. Segue una funzione buddista, accompagnata da canti e nenie dolcissime, prima che i monaci procedano alla distribuzione dei graditi doni alla popolazione composta da una trentina di persone in tutto.

 

Pagoda

 

 

I miei colleghi incontrano un gruppo di abitanti del villaggio sul piazzale principale, spiegano la situazione e ottengono di poter sottoporre a screening per la TB tutti gli abitanti.

 

Nel villaggio non c’è nemmeno una taverna dove si possa dormire, quindi dobbiamo completare le operazioni in giornata. Si allestisce in tutta fretta una sorta di sala di consulta medica in un’aula scolastica e si parte con lo screening.

 

 

Usando un questionario che avevamo preparato in anticipo, interroghiamo tutti gli uomini e le donne del villaggio circa la presenza di eventuali sintomi di tubercolosi e poi prendiamo dei campioni di escreato per l’esame microscopico da quelli che ne presentano. Alla fine, nessuno dei campioni esaminati risultò positivo e anche dal punto di vista clinico la sintomatologia era di scarsa rilevanza. In realtà, non ci aspettavamo di trovare un caso di TB multiresistente anche perché, parlando con la gente del posto, era emerso che il nostro fuggitivo aveva lasciato il villaggio natio già cinque anni prima e si era trasferito a Kathmandu per guadagnarsi da vivere. Sono sempre di più gli sherpa delle terre alte che per sfuggire agli inverni rigidissimi scelgono di trascorrere qualche mese in città, trovando alloggio precario nelle case sovraffollate di parenti e amici che vivono soprattutto nel quartiere tibetano, attorno alla grande stupa (la più grande del mondo, dicono) di Boudhanath. I più vanno a Kathmandu solo per svernare ma il nostro paziente aveva probabilmente deciso di restarvi, avendo già in mente il piano di fuga e a Kathmandu poteva guadagnarsi più velocemente il denaro che gli serviva per attuarlo. Faceva, come tanti altri, il conducente di taxi. E mi ricordo che prima di arrivare al confine tra Messico e Texas passò dagli Emirati Arabi, dal Sudamerica (forse Brasile) e poi su, in corriera, verso l’America centrale e gli USA. È possibile che abbia acquisito la tubercolosi attiva (e quindi contagiosa) durante l’avventuroso viaggio verso Ovest, che si può facilmente immaginare sia stato un periodo di scarsa alimentazione, stress fisico ed emotivo, ed esposizione a climi e situazioni ambientali che definire ‘poco salubri’ suona come un eufemismo.

Con l’aiuto dei colleghi statunitensi, riuscimmo a parlare via Skype col paziente e anche, nota pietosa, a metterlo in contatto col padre che stava morendo di carcinoma esofageo in un ospedale della capitale. Le ultime notizie che ricevemmo dal Texas erano che il ragazzo sembrava rispondere al trattamento, instaurato tempestivamente sulla base dei risultati dell’antibiogramma. Ancora più importante, soprattutto per il nostro paziente 0, fu la notizia che le autorità americane gli avevano concesso un permesso di soggiorno su base umanitaria. Rammento di essere stato colpito dall’atteggiamento delle autorità sanitarie di confine statunitensi, ospitali e protettive verso il giovane nepalese in un modo così caloroso come non mi sarei mai aspettato.

Durante il viaggio vedemmo molte scene di povertà assoluta; quella, per intenderci, che nei trattati di salute globale viene riconosciuta come uno dei determinanti sociali di salute, o meglio di malattia, tibiccì compresa.

Ecco una delle scene dove si vede un ragazzino che spacca pietre a martellate. Fosse nato ‘solo’ cinquemila chilometri più a occidente sarebbe stato, a parità di stato sociale, in una classe a imparare la storia, la geografia e la matematica. Rabbia impotente.

Tre anni e mezzo fa ho lasciato l’OMS e sono tornato a casa per stare con la famiglia; in campagna ma a poca distanza da Roma. La tubercolosi continua però a essere presente nella mia vita: faccio occasionalmente missioni per il CUAMM in Angola, un posto dove all’epidemia di TB si accompagna quella di HIV e di TB farmaco-resistente. In Angola faccio lavoro sul campo, a contatto diretto con i pazienti e gli operatori sanitari di frontiera. L’Angola sulla carta è un Paese nemmeno tanto povero (ha molto petrolio) ma quando vedi dal di dentro un centro de saude in cui manca praticamente tutto – spesso anche i farmaci per la tibiccì – allora capisci di essere nell’Africa di sempre. Capisci che il PIL come indice di ricchezza va preso con le molle: meglio contare le scorte di farmaci nello store o il tasso di abbandono dei pazienti. Capisci che il progresso di un Paese si misura anche dalla presenza di un microscopio, e soprattutto di un microscopista, nel laboratorio di ogni piccolo ospedale rurale. Possono sembrare aspetti marginali ma è anche da qui che il ‘popolo della tibiccì’ può cominciare a farsi sentire per dare il suo contributo credibile e qualificato ad almeno un paio dei grandi obiettivi globali di sviluppo sostenibile: l’eliminazione della tibiccì e il raggiungimento della copertura sanitaria universale. Vale la pena farlo.

 

 

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