30/04/2020
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Sono un’infermiera dell’ospedale Cotugno di Napoli e lavoro presso il reparto di Tisiologia da circa vent’anni. Ho visto tante persone guarire e altre purtroppo no. I pazienti affetti da TBC entrano in reparto in condizioni fisiche disastrose e quando vengono dimessi sembrano rifioriti; noi che li curiamo siamo soddisfatti e contenti del nostro operato perché ciò significa che la nostra dedizione all’assistenza ha dato ottimi risultati. La situazione cambia quando il paziente risulta essere sempre bacillifero e non riesce a guarire: questo significa che siamo davanti a una farmacoresistenza oppure che il paziente non assume correttamente i farmaci.
Una grande percentuale di ammalati di TBC sono persone che vivono in condizioni sociali disagiate, molti altri sono pazienti già affetti da patologie varie: artrite reumatoide, psoriasi, tumori, alterano il sistema immunitario portando a una immunodepressione.
In tal caso il paziente si trova a dover lottare contro due patologie contemporaneamente.
La tubercolosi si trasmette per via aerea ma spesso sono colpiti pazienti che avendo una infezione latente (cioè uno stato di risposta immunitaria della persona che è venuta a contatto con il micobatterio con la produzione di anticorpi da parte dell’organismo) presentano una riattivazione della malattia. Durante il mio percorso di assistenza infermieristica la mia mente si sofferma nei confronti di questi pazienti a ricordare storie di giovani, adulti e anziani di varie nazionalità e ceti sociali, ma ciò che ricordo con dolore e rabbia, è la storia di una giovane donna non italiana.
Questa ragazza si era ammalata di TBC giovanissima, era sposata e aveva due bambini piccoli, il secondo di pochi mesi. Durante la sua lunga degenza assistevamo spesso a continui litigi con il marito che la trattava male e la colpevolizzava; per questo motivo spesso non assumeva la terapia come prescritta. Dopo un po’ venimmo a sapere che il marito era andato via per paura di essere contagiato. Ricordo solo che era una persona burbera e violenta, incapace di capire che la ragazza, una volta guarita, sarebbe tornata a vivere la sua vita coniugale e sociale normale.
Dopo alcuni anni si presentò un giorno all’ambulatorio nel nostro reparto. Quasi non la riconoscevo, era dimagrita moltissimo e non riusciva a respirare. Preoccupata e sorpresa mi recai dal medico per farla visitare; il caso non era semplice poiché era necessario un ricovero che però la ragazza rifiutava dicendo che non poteva lasciare i figli da soli a casa con il compagno. Per questa ragione decidemmo di controllarla in ambulatorio. Dai controlli emerse che la malattia si era riattivata ed era bacillifera quindi pericolosa per la possibilità di contagiare anche i bambini. A questo punto il medico la convinse ad accettare il ricovero e la paziente iniziò una terapia molto pesante con moltissimi farmaci anche tossici in quanto si erano sviluppate resistenze a molti farmaci. La madre le stava accanto, preoccupata per la figlia che vedeva ogni giorno sempre più magra e senza risultati visibili. Dopo questo periodo di ricovero la ragazza fu dimessa per continuare la terapia a domicilio; ogni settimana veniva al controllo in day hospital per praticare gli esami di laboratorio e a ogni controllo io la vedevo sempre peggiorare. Non riusciva nemmeno più a camminare, la dovevamo trasportare con la sedia a rotelle, e lei mi chiedeva sempre come mai non riusciva a guarire. La malattia ormai le aveva distrutto i polmoni e non aveva più tessuto polmonare. Dopo un po’ non la vedemmo più, e un giorno venimmo a sapere che la ragazza era deceduta nel sonno accanto ai suoi bambini, il suo fragile corpo si era spento giorno dopo giorno. Questa storia forse è una delle tante, ma in me provoca amarezza e rabbia perché oggi non si può ancora morire per tubercolosi. La scienza medica ha fatto enormi progressi e ora disponiamo di farmaci appropriati che, se somministrati correttamente, possono debellare completamente la malattia.
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