“VE LI RICORDATI I VOSTRI 16 ANNI?” di Alessia Agazzi

30/04/2020

 

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Maggio 2014

16 anni, una cartella in spalle, tanti sogni nel cassetto e la spensieratezza che contraddistingue quell’età.

16 anni, il profumo della primavera, i capelli al vento, la voglia d’estate, di finire quelle maledette verifiche, il sole caldo che ti avvolge.

Ve li ricordate i vostri 16 anni? A 16 anni non vorresti mai, o forse non dovresti mai, sentir parlare di malattia, di cure, di tubercolosi.

Eppure, succede, succede che la vita ti stravolga, che la vita ti metta sulla strada un “compagno di viaggio” che non ti abbandonerà mai, che vivrà dentro di te per sempre.

Succede che la vita ti stravolga e ti metta di fronte a una cosa che, forse, tu non volevi fare tua, succede che la vita ti stringa un po’ più forte e ti dica: “è giunto il momento di crescere, è giunto il momento di imparare, è giunto il momento di lottare”.

Sai, non si sa quando, non si sa come, ma arriva un momento in cui la vita ci prende per mano, chi prima e chi poi, e in un modo tutto suo, con un piano per ciascuno di noi, ci mette di fronte a delle sfide.

A 16 anni forse non sei pronto, forse a 16 anni non vuoi proprio che quel dolorino pungente che ti si presentava quando camminavi un po’ più forte, correvi un po’ più veloce, dormivi un po’ più profondamente, si trasformasse in un fedele amico.

Non avevi bisogno di nessuno tu, eppure, da un giorno all’altro, non sei più solo.

Ho ripercorso più volte quei 16 anni, tutte le volte in cui non ho saputo spiegare cosa avessi avuto davvero, tutte le volte in cui ho stretto i denti e, con le guance rosse, ho cercato di inventare scuse per non rispondere alla domanda: “Ma davvero cosa hai avuto?”, tutte le volte che mi sono vergognata di essere stata malata, tutte le volte in cui mi sono chiesta se questo mio “compagno di vita” sarebbe potuto diventare un problema se le persone che mi stavano attorno, un giorno, fossero venute a conoscenza della sua presenza, tutte le volte in cui mi sono domandata se potessi trasmettere qualcosa alle persone che amo, tutte le volte in cui ho ascoltato con visibile imbarazzo discorsi che riguardavano persone malate della mia stessa malattia.

A 16 anni, forse, non sei pronto ad affrontare tutto questo, non sei pronto a dare spiegazioni, ma, forse, realmente, non lo sarai mai.

Era il 13 maggio 2014, lo ricordo come fosse ieri.

La terza superiore, le ultime settimane di scuola, qualche versione di greco di troppo, qualche segno di stanchezza qua e là.

Tutto normale, uno stile di vita regolare di una qualsiasi ragazzina di quell’età.

Salivo e scendevo da un pullman all’altro, in una vita scandita dal tratto casa-scuola scuola-casa, 25 km che separavano il mio paesino di provincia dalla città, Bergamo, che, ai tempi, profumava di libertà e di vita frenetica.

Un compito di troppo, una materia scomoda da studiare, la voglia d’estate, ormai alle porte, e un piccolo ma pungente dolorino nella zona del polmone sinistro che, in fondo, non mi lasciava mai.

Ero diventata brava a nasconderlo a me stessa, avevo affinato qualsiasi tecnica per non percepirlo più: non dormivo più sul fianco sinistro, non camminavo più troppo velocemente in modo tale da non farlo comparire, la corsa era bandita dalla mia quotidianità.

Eppure, suonavo il flauto traverso e, durante le lezioni, non c’era modo per nascondere il mio affaticamento, la mia mancanza di fiato, sempre più accentuata, dalla mia insegnante che, puntualmente, mi chiedeva se andasse tutto bene e alla quale io giustificavo la cosa dando la colpa al cambio stagione.

Mi ero convinta, però, che quel dolorino non sarebbe passato da solo e, senza dargli comunque l’importanza che aveva, avevo chiesto a mia mamma di accompagnarmi dal medico, “per sicurezza” avevo detto, celando il fastidio vero e proprio, per non creare allarmismi.

Era martedì 13 maggio, appunto, una sala d’attesa piccola, qualche viso conosciuto attorno a me e la mamma che, accanto a me, sfogliava una rivista in attesa del mio turno.

Il medico di famiglia che, negli ultimi anni, mi avrà vista giusto un paio di volte, mi accolse chiedendomi cosa succedesse e, una volta auscultati i polmoni e misurata la capacità respiratoria che risultava essere massima, perplesso, aveva ipotizzato che io potessi avere un’infiammazione a una parte del corpo che poco c’entrava con i polmoni.

Tranquillizzata, ero uscita da quello studio senza farmi troppe domande.

Eppure, dopo neanche cinque giorni, in una domenica calda di maggio, dopo una serata in discoteca con le amiche e dopo aver suonato alle comunioni del paese, tornavo a casa svarionata e senza forze, trascinandomi, mentre percorrevo quelle poche centinaia di metri che dividevano la chiesa da casa mia.

Non mi era stato dato il tempo di entrare in casa che mia mamma mi aveva già fatto sedere sul divano e oplà, col termometro alla mano che indicava 39 e passa di febbre, i miei genitori mi avevano caricata in macchina e dritti all’ambulatorio della guardia medica che, auscultandomi il petto, guardandomi negli occhi aveva affermato: “Non sento il polmone sinistro della ragazza, è necessario che la portiate subito al pronto soccorso”.

E allora, senza rendermi conto dei chilometri percorsi e di ciò che mi era stato detto, mi ritrovai presso il pronto soccorso di Lovere, con un ago enorme nel braccio, in attesa di ricevere i risultati dei miei esami del sangue e della mia radiografia al petto.

Ero in balia dei medici, gente che non conoscevo, accanto a me mamma e papà, le due persone di cui più mi fidavo al mondo.

Non so quanto sia durata l’attesa, non so esattamente cosa stessi facendo nel mentre, eppure, ricordo di essermi trovata al cospetto di un medico burbero che con fare simpatico mi aveva chiesto: “Cosa hai in programma per le prossime settimane?”. Io, con sincerità e anche un pizzico di ingenuità, avevo risposto: “Tra pochi giorni devo partire per l’Archeostage (una settimana nei pressi di Ercolano, un progetto che avevo seguito da tempo insieme ad altri ragazzi della mia età o di un anno più grandi)”.

Lui, con freddezza mi aveva risposto: “Tu non ci andrai, non andrai da nessuna parte, anzi, ti faccio trasferire presso l’Ospedale di Bergamo dove possiedono le apparecchiature adeguate e il reparto di pediatria, hai un versamento pleurico al polmone sinistro in stato avanzato che va tolto, hai una polmonite pleurica che va curata”.

In quel momento sì, mi era crollato tutto addosso, “Come non andrò all’Archeostage?”, continuavo a pensare dentro di me.

Forse, il medico si era reso conto di essere stato un po’ duro con me e per sdrammatizzare mi aveva detto: “Conosci dottor House, il medico della serie un po’ freddo? Ecco tutti mi dicono che assomiglio a lui”.

Mi ricordo queste parole come se fossero ieri, forse il mio stato di coma, forse la febbre mi avevano fatto venire voglia di urlargli contro qualsiasi cosa mi passasse per la testa in quel momento, eppure, il silenzio.

Non una parola era uscita dalla mia bocca, il mio sguardo aveva seguito quello dei miei genitori che, preoccupati, avevano raccattato le carte compilate da quel medico e mi avevano preso per mano, stretta a loro in quei pochi metri che dividevano il pronto soccorso dalla nostra auto, pronti per portarmi a Bergamo.

Altri chilometri, un percorso che sembrava interminabile, un altro pronto soccorso, attesa, persone, altri medici.

Frastornata, persa, con tanta voglia di tornare a casa, queste le sensazioni che mi passavano per la testa mentre attendevo che la dottoressa mi chiamasse per poter fare l’ecografia di cui mi avevano parlato qualche ora prima.

 

* * * * *

 

“Mi raccomando stai ferma Alessia, nonostante il freddo del gel, è necessario che il punto dove dobbiamo inserirti il drenaggio domani sia posizionato più precisamente possibile”.

“Il drenaggio? Cosa è un drenaggio?”, pensavo tra me e me, senza fare domande alla dottoressa che mi stava di fronte.

Forse non mi interessava così tanto, o forse, molto più probabile, non avevo nessuna voglia di sapere cosa mi sarebbe spettato il giorno dopo.

Dopo l’ecografia il nulla, ricordo una me felice che sguazzava nei corridoi dell’Ospedale di Bergamo, ammaliata da quel luogo nuovo che profumava di tutto fuorché di un luogo di cura.

Ricordo un lettino piccolo, le lenzuola della carica dei 101, al pronto soccorso, la notte insonne dei miei genitori stampata nei loro occhi il mattino seguente, un via vai di infermiere, e basta.

Ho un vuoto di qualche ora che, ad oggi, non riesco a riempire, e forse, non voglio riempire.

I ricordi scorrono e mi vedo percorrere i corridoi della chirurgia pediatrica, qualche pupazzo di troppo, qualche giochino qua e là, il colore delle pareti che rendeva tutto simile ad una sala giochi, io su quel letto, avevo paura.

Ricordo le facce dei medici, le loro domande sul timbro della discoteca che avevo sulla mano, ancora presente, un po’ sbiadito, da quelle 48 ore che sembrano essere anni.

E poi l’anestesista, il suo: “Fai la conta al contrario da 10 a 0”, io che eseguo pensando a: “Non mi addormento, non è come nei film” e poi il silenzio, il nulla.

Ancora un vuoto, giorni di vuoto, giorni scanditi da via vai delle persone che amo e via vai di medici.

Nove lunghi giorni, in cui scrivevo su Facebook quanto desiderassi poter camminare, legata al letto da un drenaggio che a volte sembrava davvero bucarmi il polmone, in cui avevo finalmente imparato a mandar giù le pastiglie senza masticarle, nove lunghi giorni di sorrisi, di noia, di riposo.

E poi casa, la vita normale, qualche pastiglia in meno, qualche visita di controllo, qualche radiografia di troppo, qualche residuo di versamento pleurico che sembrava aumentare e non diminuire, il sole sulla faccia, l’estate.

 

18 giugno 2014

Dover raccontare questa giornata, ad oggi, mi sembra surreale, come se non l’avessi vissuta io.

Mi scorrono nella testa miliardi di ricordi, miliardi di piccole azioni, miliardi di espressioni.

Era, apparentemente, una giornata normale ma, già prima di alzarmi dal letto, avevo percepito un fare strano di parlare al telefono di mia madre, cosa a cui non avevo dato un peso troppo rilevante.

Assonnata, di fronte alla mia piadina con nutella, fissavo il vuoto cercando di riprendere coscienza, quando mia mamma, irrompendo nella mia incuranza dei fatti, ad un certo punto, mi aveva chiesto di andare in soggiorno con lei e di sedermi per favore sul divano.

Lì, avevo capito fosse successo qualcosa di inusuale, la sua faccia lasciava trasparire un elevato senso di preoccupazione misto ad angoscia.

Indossavo il pigiama rosa con le torte, un fiocco fucsia in vita, i capelli scompigliati e un faccia a faccia con mia madre che, in preda al panico, mi stava per dire che avevano chiamato dall’ASL per avvisarmi che erano stati fatti altri esami sul mio liquido pleurico e quella che sembrava una “semplice” polmonite, non lo era.

“Hanno chiamato il papà e hanno detto che hai la tubercolosi”.

… “Hanno detto che hai la tubercolosi, la tubercolosi, la tubercolosi… la tubercolosi”, questo risuonava nella mia testa.

A 16 anni, forse, neanche si sa davvero cosa sia la tubercolosi.

Ma chi ce l’ha la tubercolosi?

A 16 anni, in Italia, senza mai aver messo piede in un Paese considerato “del terzo mondo”, senza aver mai avuto contatti con persone malate, a 16 anni, nel XXI secolo, chi si ammala di tubercolosi?

Io, io mi ammalo di tubercolosi, a 16 anni, con o senza stupore.

Io, non una persona di una diversa etnia, come erroneamente siamo troppo soliti pensare, sbagliando.

Io, una ragazzina qualsiasi, con uno stile di vita normalissimo. Sorprendente, vero? A 16 anni ero un “rarissimo caso clinico” per il mio Paese.

“Vuol dire che morirò?”, queste le uniche parole che ero riuscita a proferire di fronte allo sconforto di mia madre, non una lacrima, non una parola in più.

Mia madre mi aveva rassicurata su questo fatto, dicendo che la tubercolosi era una malattia curabile e che, sicuramente, sarei guarita. Probabilmente, in quel momento, neanche lei aveva idea di quello che avremmo dovuto affrontare, del protocollo che avrei dovuto seguire e delle cure a cui mi sarei dovuta sottoporre. Eppure, ora, mi sorrideva, stringendomi a lei senza parlare più.

Non ricordo nient’altro di quella giornata, anzi, un arrovellarsi di ricordi, di chiamate con l’asl, mi si presenta nella mente, eppure, non riesco a descrivere nessuna emozione, nessuna sensazione che devo aver provato in quel giorno di sole di un giugno afoso, il gelo.

Ricordo nei giorni seguenti la faccia di un medico giovane che mi prescriveva una quantità infinita di pastiglie da prendere secondo le dovute accortezze, la faccia di un altro medico, forse un po’ troppo burbero, per una ragazzina di 16 anni non pronta ad affrontare tutto questo, per una ragazzina di 16 anni che conosceva la tubercolosi solo per nome perché la tubercolosi sì, è famosa, “Anche la principessa Sissi si era ammalata di tubercolosi”, ma che di fatto, non sapeva nient’altro su quella malattia.

Ricordo il volto di un ragazzino dalla carnagione un po’ più scura della mia che usciva dall’ufficio del medico prima di me, sembrava tranquillo, ma stanco, accompagnato da suo padre che, dolcemente, gli teneva un braccio attorno al collo.

Era l’ultima volta che avrei visto quel medico, l’ultima volta che avrei visto quel ragazzino, eppure me li ricordo.

Lui era come me, ci accomunava un “compagno di viaggio” che, sono certa, neanche lui avrebbe voluto, forse qualche anno di differenza, eppure lo sentivo così simile a me in quel momento, così vicino a me, nonostante non sapessi nemmeno come si chiamasse.

Mi ero accorta di come, ora, certe situazioni mi avevano avvicinato, anche solo mentalmente, a persone che non conoscevo ma che stavano vivendo le mie stesse esperienze, non c’erano confini, non c’erano differenze.

Mi ero accorta di come le persone che vivevano una malattia fossero piene di amore, piene di gente che le sorreggeva, e anche per me era così.

Mi ero accorta di come le persone che mi amavano mi sorreggessero talmente forte da farmi sentire leggera, a tal punto da non sentirmi malata.

Ero felice, in un periodo in cui, forse, a ragione, avrei potuto avere un motivo valido per non esserlo a pieno, eppure lo ero, ero felice davvero, di una felicità pura che, negli ultimi anni, in poche altre occasioni sono stata capace di provare.

Ho potuto vivere poco il reparto infettivi dell’ospedale di Bergamo, un paio di visite che mi avevano permesso di toccare in punta di piedi quella realtà complicata, di cui ricordo gli ambienti meno colorati e più austeri della pediatria, i corridoi più vuoti e i volti più desolati.

Ho “lasciato” questa realtà per addentrarmi in una realtà nuova, più familiare, solo per “noi”, noi malati di TBC, si intende.

Mia mamma, presa dall’improvviso senso di doversi documentare su questa malattia che, ancora oggi, risulta essere troppo poco conosciuta, in quei giorni si era imbattuta in qualche intervista fatta al dottor Besozzi, il Presidente di Stop TB Italia Onlus, ma, prima di ogni altra cosa, un medico che da anni curava questa malattia.

Questo l’aveva spinta a scrivergli per avere delucidazioni in merito alla mia situazione, et voilà, in poche ore mi ero ritrovata in viale Zara a Milano, nell’ufficio del dottor Besozzi che, con fare umano e familiare, fin da subito, mi aveva fatta sentire a casa.

Mi aveva accolta, parlando a me e ai miei genitori, in maniera molto amichevole e tranquilla, della tubercolosi. Non aveva avuto timore a pronunciare questa parola che, negli ultimi giorni, non avevo sentito quasi mai pronunciare da nessun altro, in mia presenza.

Non avevo fatto alcuna domanda al dottore, intenta ad ascoltare quello che mi stava dicendo, mi sentivo estremamente tranquilla, come se, finalmente, avessi trovato la persona a cui avrei dato la mia piena fiducia e il mio consenso nelle cure che avrei dovuto affrontare.

Ma non era finita qui, di lì a poco, infatti, mi avrebbe presentato il dottor Maurizio Ferrarese, il medico che poi mi avrebbe accompagnata nelle visite a seguire.

Ricordo perfettamente Villa Marelli, un odore di casa misto a umidità ti accoglievano quando varcavi il suo ingresso, era un posto felice per me.

Appuntamento alle ore 8.00 del giorno X nell’ufficio 245: così iniziava ogni mia giornata tipo in quella che per me, ora, era una seconda casa.

Mi piaceva scrutare le facce delle persone attorno a me, avrei voluto abbracciarle, fare amicizia con loro.

Tante sfumature di colori, tante carnagioni di colori diverse, tante etnie, età diverse, tutte accomunate da una medesima cosa, eppure era bello.

Conoscevo a memoria le foto attaccate sulle pareti della sala d’attesa, le infermiere mi sorridevano ogni volta che mi toglievano il sangue per gli esami di prassi, facendomi fantasticare sul futuro che da lì a qualche anno mi sarebbe toccato, interrogandomi su svariati aspetti della mia vita.

Colazione alle macchinette, la cioccolata mi sembrava così buona e poi, via, al piano superiore per la radiografia al torace.

E poi attesa, dove vagavo tra i miei pensieri, immaginando le cose più disparate, per poi entrare nell’ufficio del dottor Ferrarese che, tra una battuta sull’Inter e l’altra, mi riforniva di dozzine e dozzine di farmaci.

9 mesi, 9 mesi in quella piccola grande villa che mi accoglieva sempre con fare sorridente e caloroso.

9 mesi in cui i blister delle pastiglie che attaccavo con le puntine al compensato di fronte al mio letto avevano ormai invaso tutto lo spazio.

9 mesi di cure, qualche mese in cui mi svegliavo alle 5 per poter prendere le pastiglie un’ora prima della colazione prima di uscire di casa per andare a scuola, eppure ero felice.

9 mesi di amore, 9 mesi di lotte, 9 mesi di aiuto, da parte della mia famiglia, da parte dei medici.

9 mesi in cui ho capito quanto la vita sia sì, difficile, ma straordinariamente grande: tanto ti toglie, tanto ti dà, affiancandoti persone in grado di farti sentire leggera, ancor più viva, quasi invincibile.

9 mesi che, nonostante la fatica, nonostante le prese in giro ricevute dai miei coetanei, nonostante la vergogna che, ancora oggi, a distanza di quasi sei anni, in certe situazioni, si ripresenta, rivivo con leggerezza, sorridendo al ricordo di certi aneddoti.

9 mesi che, forse, dovrei ricordare più spesso, ogni volta in cui un ostacolo mi sembra insormontabile, in cui mi lamento per cose futili, in cui non apprezzo pienamente ciò che sto vivendo.

9 mesi che portano il nome dei miei genitori, in primis, e del dottor Besozzi e del dottor Ferrarese, insieme a tutto il personale di Villa Marelli, che mi hanno curata, seguendo la profilassi che prevede questa malattia e, al tempo stesso, accolta, coccolata, permettendomi di vivere la mia condizione come se fosse normalità, facendomi sentire amica/figlia e non solo paziente.

9 mesi in cui ho fatto amicizia e guardato con dolcezza tutte le persone che incontravo in quel luogo, soprattutto, sentendomi immensamente grata per quello che stavo vivendo, nonostante tutto.

Sono quasi cinque anni, dal 5 Febbraio 2015, giorno in cui sono stata ufficialmente dimessa da Villa Marelli che sento dentro di me il dovere di ringraziare i miei medici per tutta la professionalità, assistenza e attenzione che mi hanno donato.

L’anno scorso, per impegni universitari, ho intrapreso un tirocinio presso l’Ospedale San Raffaele di Milano e, secondo la prassi, mi è stato, giustamente, imposto di fare una visita con un pneumologo per poter avere l’idoneità allo svolgimento dello stesso presso la loro struttura, a fronte della mia passata condizione clinica.

Qualche giorno dopo, in occasione di quella visita, mi sono trovata di fronte il dottor Codecasa, colui che ha firmato le carte della mia dimissione quel famoso 5 febbraio.

È stato per me un colpo al cuore, in quanto, in quel momento, mi è sembrato di rivivere alcuni momenti passati presso Villa Marelli.

Io ho riconosciuto immediatamente il dottore, al quale, ovviamente, non ho detto nulla, certa che, visto il via-vai di pazienti, non si sarebbe mai ricordato di me.

Mi sono, quindi, con un sorriso sul volto, ripromessa che avrei avuto un’occasione per ringraziare davvero i medici di questa fantastica struttura, ed ecco, che in un sabato qualsiasi, scorrendo svogliatamente sulla bacheca di Facebook, leggo dell’esistenza del premio Virchow: ho pensato fosse un’occasione ad hoc per poter finalmente realizzare il mio desiderio.

Dedico, quindi, a loro il racconto della mia esperienza con il “mio compagno di viaggio”, come forma di ringraziamento per tutto quello che hanno fatto per me, ricordando loro che sarò immensamente grata per la vita per il loro operato, così come lo saranno tutti quei pazienti in giro per l’Italia e nel Mondo, che hanno potuto godere delle loro cure.

 

 

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