“UNA LUCE SULLA MONTAGNA” di Martina Ferlisi

31/05/2022

Prima non c’era e ora si. Luccicava puntiforme come la prima stella che appare nelle notti d’estate: il cielo
da azzurro si fa appena blu e lei è lì coraggiosa ed esultante in un punto imprevisto, imprevedibile. Quella
luce si era accesa così, sul mantello nero della montagna e nessuno riusciva a spiegarsi né cosa fosse e né
perché non l’avesse mai notata prima.
“È un rifugio. È un rifugio dove viaggiatori stanchi si riposano”, aveva detto Franco, sorridendo con gli
occhi che si facevano semilune. “Avranno camminato tutto il giorno, aria buona e pranzo al sacco e ora,
meritato riposo”. “No, non può essere”, scuoteva la testa Salvatore. Era solo una lucetta, ripeteva alla
ricerca di consenso. Non aveva una spiegazione per quell’enigma, non una logica per lo meno, e questo
sembrava aver turbato quella pacatezza da bancario che era stato. Di solito era lui che spiegava le cose
agli altri. Come quella volta che aveva tentato di far capire a Franco chi fosse Oriana Fallaci o perché la
Grecia fosse in crisi. Per alcuni giorni Marta aveva ignorato il suo nome, le era sfuggito al momento delle
presentazioni e per questo lo aveva rinominato semplicemente Il Vicino. Lo incontrava spesso nel
balconcino accanto al suo. Si scambiavano due o tre parole e lui tentava ogni volta di convincerla della
bellezza del luogo in cui si trovavano, bellezza che lei non era ancora pronta a vedere e che forse era
difficile da accostare a un posto chiamato ospedale. Salvatore questa volta, però, si era arreso subito e
fingendo di credere alle parole di Franco, aveva aggiunto che avrebbe voluto essere lui quel viaggiatore
stanco. Micaela si era limitata a sorridere annuendo, come era solita fare Micaela. Il suo sguardo perso,
oltre la montagna, dietro occhiali sproporzionati per un viso così piccolo. E lei, lei li guardava, finalmente
li guardava.
Si erano riuniti come ogni sera, puntuali, alle nove, nella grande terrazza dalle serrande panciute. Panciute
perché i medici negli anni ‘50 potessero vistare i pazienti con i gomiti alzati, le cartelle cliniche
sottobraccio. Mentre loro, gli ammalati, prendevano tutto il sole che potevano e tutta l’aria che ci stava
nei loro polmoni bucati. Si chiamava elioterapia. Lo aveva spiegato sempre lui, Salvatore, la sera prima o
forse due o tre sere prima ancora. Tutte le sere erano così terribilmente uguali che nessuno si sarebbe
accorto di averle confuse un po’. A Salvatore glielo aveva raccontato Lilly, aveva precisato aggiustandosi
gli occhiali sul naso sottile. Lilly l’infermiera più anziana, quella con i capelli argentati e i modi un po’
bruschi ma rassicuranti di chi sa quello che fa, e lo fa da tempo. Salvatore aveva pensato che sì, era proprio
una storia da condividere nelle riunioni serali sulla veranda. Non c’era molto altro da raccontare
d’altronde. Le rispettive gesta eroiche, quelle di come ognuno di loro aveva scoperto di essersi ammalato,
le conoscevano tutti a memoria. Le ripetevano ogni sera come un mantra, aggiungendo ogni giorno un
pezzetto in più, che di solito era un conto alla rovescia: “Tra una settimana sarò pronto a tornare giù, l’ha
detto il dottore oggi”. Franco una mattina si era ritrovato a tossire sangue, “tanto da poterne riempire
mezzo bicchiere di vino” diceva, facendo sì con la testa, come se fosse una cosa di cui andare orgoglioso.
Ma non era orgoglio. Era solo un uomo pratico, concreto che le cose, per capirle, doveva misurarle. Si
stava preparando per una delle sue camminate, 18 km ogni giorno da quando era in pensione nei boschi
del bergamasco “e poi…poi un colpo di tosse” … Solido e robusto come una quercia, dagli occhi profondi
e buoni, era amante della bella vita, ma di quella semplice. In un passato non meglio precisato era stato
un atleta, un campione di canottaggio. Lamoglie quel giorno si era spaventata moltissimo e a lui era venuta
la tachicardia. “Tra una settimana però sarò pronto a tornare giù”. Parlava di sé come fosse una macchina,
un ingranaggio che aveva funzionato molto bene fino a quando c’era stato un guasto, uno importante, e
qualcuno stava tentando di ripararlo. Era quello del gruppo che Marta trovava più simpatico e più di una
volta avrebbe voluto abbracciarlo per consolarlo. Le sembrava una divinità che a un certo punto era
caduta dal cielo e si era scoperta mortale. Ma non lo fece mai, non lo abbracciò. Gli strinse forte la mano
però. Un giorno Franco bussò alla sua porta e le augurò tutto il meglio, anche Marta gli augurò tutto il
meglio e la vide quella lacrimuccia brillare all’angolo dell’occhio. Fu il primo del gruppo della veranda a
essere dimesso dall’ospedale o come dicevamo loro a scendere. Si trovavano a quasi mille metri d’altezza,
circondati dalle montagne della Valtellina, da un bosco di più di 80 tipi di conifere differenti, dal cielo
azzurro e dalle rondini impazzite come ci teneva a ribadire ogni volta Il Vicino, allargando il petto per
accogliere quell’aria leggera e fresca anche a luglio. Si trovavano in quello che era stato un sanatorio
costruito in tempi in cui l’isolamento e l’aria buona era ciò che più assomigliasse a una cura. Per cui chi
usciva in realtà scendeva e tornava alla vita reale che stava giù e chi rimaneva, rimaneva su, sospeso e
paziente. “Paziente significa che siamo qui per portare pazienza”, aveva detto Gianni spalancando un
sorriso ingiallito sotto baffetti bianco sporco. Era stato il suo modo per presentarsi a Marta, ultima
arrivata in quella sgangherata comunità dove nessun aveva niente in comune con nessun altro, eccetto la
tubercolosi. Aveva insistito per fare gli “onori di casa”, accompagnarla a fare la radiografia farle conoscere
dove si trovava cosa e come arrivarci. Lei lo avevo seguito in un evidente stato confusionale come chi si
perde in un lungo corridoio e non ricorda qual è la porta giusta per uscirne. “Stasera ti aspettiamo in
veranda” aveva poi detto sulla soglia della sua stanza salutandola con la mano. Non se l’era sentita di dire
di no. Inorridita di fronte a quel vecchietto consumato ma radioso, intenzionato a diventare suo amico
con la stessa facilità di un bambino vivace alle scuole elementari, aveva optato per ricorrere a un mezzo
sorriso sforzato. Ci è cascato si era detta. Di scuse per non andare al loro appuntamento ne avrebbe
trovate poi.
Che poi non erano scuse, non si sarebbe presentata all’appuntamento perché tutte quelle novità l’avevano
stancata molto. Aveva già trascorso un mese nel più completo isolamento nel reparto delle malattie
infettive dell’ospedale della sua città e immaginava che lì non sarebbe stato tanto diverso, se non
addirittura peggiore. Non si sarebbe presentata all’appuntamento perché non aveva voglia di vedere
nessuno e perché preferiva rimanere sdraiata sul suo lettino a osservare la montagna nera che si rifletteva
sulla finestra della sua stanza, per poi finire per piangere e poi dormire. Era in costante dialogo, ma solo
con sé stessa e con il suo dolore. Era consapevole del fatto che non avesse senso e non era una cosa da
fare o che tantomeno l’avrebbe fatta stare meglio, ma non riusciva a smettere di chiedergli il Perché e
avrebbe anche voluto saperlo il più fretta possibile per poi passare oltre. Sapeva anche che era per questo
che si sentiva la bocca sempre asciutta, le labbra troppo screpolata e la lingua sporca come se sopra fosse
cresciuto uno strato verde e spesso di muschio che le rendeva faticoso parlare. Se ci avesse riflettuto bene
ci sarebbe stato solo un linguaggio che avrebbe voluto imparare in quei giorni. Se avesse potuto avrebbe
voluto imparare il linguaggio della guerra che le stava succedendo dentro, che la riguardava
profondamente, tanto che c’entravano i suoi organi, i suoi globuli bianchi, i suoi polmoni, ma che lei non
riusciva controllare. Voleva farlo per poterlo raccontare a chi ogni mattina gliene chiedeva conto, i suoi
familiari o chi di tanto in tanto le mandava un messaggio e poi i medici e gli infermieri che entravano
nella sua stanza sempre sorridenti sotto le mascherine, i camici, i guanti, i copri scarpe, ma a cui spesso
Marta non sapeva bene che dire. Quando chiudeva gli occhi le venivano in visita corvi, lupi e sagome
nere e minacciose che si avvicendavano rapide nei suoi pensieri e non ne aveva altri migliori per riuscire
a scacciarli, ma forse non era questo che volevano sentirsi dire quando le chiedevano Come stai. Finiva
solo per desiderare con tutta sé stessa le medicine che le davano, come un dio salvatore e poi per
disprezzarle come il peggiore dei diavoli. Finiva solo per passare le giornate a dormire perché passassero
più veloci e anche il dolore fosse meno doloroso. Si era pietrificata in una isolitudine che la faceva sentire
anni luce distante da tutti e poi l’avevano perfino trasferita al Morelli di Sondalo.
Alla fine, però, ci era andata all’appuntamento in veranda. Come ci era andata anche la sera successiva e
quella dopo ancora e tutte le sere che era stata lassù. “Buonasera”, aveva sussurrato al gruppo, senza
guardare negli occhi nessuno, concentrandosi sul piegare con molta cura la mascherina azzurrina che
teneva tra le mani. Ci aveva scritto il suo nome sopra in stampatello per non confonderla con quella di
nessun altro, anche se in stanza era da sola. Avevano il permesso di toglierla sulla veranda, ma lei avrebbe
voluto tanto tenerla la sua mascherina. Tenerla per coprirsi il volto. Non per paura. Non per nascondersi.
Ma per distinguersi che lei non c’entrava nulla con loro. Loro, gli estranei davanti a lei erano malati, i
malati, gli altri malati. E non le importava se anche lei avesse tutti i requisiti, un polmone, quello destro,
mal messo e sette o otto pillole colorate al giorno da inghiottire con effetti collaterali annessi, per
considerarsi parte di quel gruppo mal assortito. Per diversi giorni aveva evitato di guardarli negli occhi.
Non guardava Gianni, non guardava Franco, non guardava Salvatore e non guardava Micaela che pure
aveva la sua stessa età, ma era così gracile che il vento se la sarebbe portata via se non fosse stata attaccata
a una grande bombola di ossigeno. Stava semplicemente ogni sera stava, lì seduta in cerchio, su scomode
siede di legno vecchio insieme a loro e li ascoltava e ascoltava le loro storie.
E così i giorni passavano e lei si ricordava che non era sola, non era la sola. Si ricordava come si facesse
a ridere e cosa significasse avere qualcuno con cui condividere quello che stava vivendo e che poteva
realmente capire anche se diverso da lei.
Finché quella luce si era accesa sul mantello nero della montagna e si era trovata a pensare che fino a
qualche mese prima non avrebbe dato nessuna importanza a una lucetta, l’avrebbe degnata di uno sguardo
veloce e poi avrebbe guardato altrove o forse neppure quello, l’avrebbe ignorata o non l’avrebbe neppure
vista. Quello che i suoi compagni di viaggio le stavano facendo notare quella sera non era solo una lucetta,
era quanto di più importante avessero in quel momento, era tutto quello che li teneva vivi, tutto quello
che li rendeva uomini e che li stava guarendo a uno a uno dentro.
Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente
casuale.

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