“DANKA E LA POZIONE MAGICA” di Mariano Martini

30/04/2020

 

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Ero solito mettere a dormire i bimbi raccontando storie di fantasia che, ogni volta, finivano sempre per ottenere un effetto diverso da quello auspicato di indurre il sonno. I miei racconti sembravano produrre una reazione esuberante di curiosità e partecipazione senza limiti, con la conseguenza che l’atteso momento di Buona notte fiorellino accompagnato dalle note di De Gregori che segnavano ogni notte gli ultimi istanti prima di dormire, tardava sempre ad arrivare.

I racconti si alternavano ogni sera secondo un turn over del tutto casuale e secondo lo stato d’animo del momento, attingendo a episodi o eventi realmente accaduti nella vita quotidiana, nelle varie epoche storiche, o talvolta concepiti e immaginati in una dimensione fantastica proiettata nel futuro.

Quella sera però l’atmosfera era diversa, e forse qualcosa era cambiato. Qualcosa di nuovo aveva provocato nei bambini un’impaziente curiosità di ascoltare un nuovo racconto ma questa volta accompagnato da una precisa richiesta, quasi come potessero scegliere da un menù.

Si percepiva in verità un’insolita inquietudine tanto che, con mia sorpresa, mi accorsi che i due marmocchi si erano già ‘imbustati’ sotto le coperte in anticipo rispetto al consueto orario e il piccolino aveva già diligentemente lavato i denti senza farselo ripetere almeno dieci volte. Certo, il suo pigiamino azzurro con i disegni degli adorati Elfi di Babbo Natale era stato infilato come al solito al contrario, ma in cameretta tutto era perfetto, tutto era in ordine.

Con mio grande stupore entrando nella loro stanza fui colpito dalla presenza di tutta la squadra di orsetti e peluche al gran completo, tutti disposti armonicamente ad anfiteatro, come se dovessero essere anche loro spettatori. Ma spettatori di che cosa? E perché tutta questa preparazione era stata architettata quella sera? Cosa era accaduto di così particolare quel giorno da ‘annientare’ il càos (comunque sano e spontaneo) che regnava abitualmente nel loro esclusivo e fraterno rifugio?

Come d’incanto, entrando nel nuovo e sorprendente Kósmos del loro regno insolitamente ovattato come se fosse avvolto da qualcosa di magico, mi accorsi subito che l’atmosfera era diversa, e che anche il loro sguardo era alla ricerca di qualcosa di nuovo, di particolare, di qualcosa di straordinariamente speciale. I loro occhi, colmi di curiosità, straripavano e, insieme alle loro orecchie, erano impazienti di ascoltare il nuovo racconto della ‘buona notte’. Mi resi insomma conto da subito che quella sera la sfida sarebbe stata più ardua del solito e che le note di De Gregori non avrebbero potuto certo essere la loro sola ‘ninna nanna’.

Giusto il tempo di abbassare le luci del loro ‘rifugio’ e presi posto, come ero solito fare, su uno sgabello girevole, molto pratico e alto come quelli delle birrerie, posto in centro ai piedi dei loro letti. Quella posizione, equidistante e privilegiata, mi permetteva di attirare la loro attenzione e al tempo stesso di captare ogni loro sguardo, di dissenso o di stanchezza, ma anche di euforia o stupore, in modo da calibrare l’andamento e il tono del racconto. Era bellissimo vedere ogni sera le loro reazioni, le loro riflessioni, i loro interventi spontanei e condividere ogni singolo momento con affetto e grande energia in una dimensione quasi spirituale e magica. Un grande regalo che ricevevo ogni sera… irrinunciabile…!

Da diverso tempo ormai rientravo a casa raccontando qualche episodio di vita vissuta sul lavoro in Università o al Policlinico. In particolare in quel periodo, dopo aver iniziato a seguire le attività di StopTB e avere conosciuto Giorgio (che in casa era soprannominato ‘Big George’ come un super eroe per le molteplici iniziative e progetti in Senegal), mi stavo occupando in maniera più approfondita dell’evoluzione di alcune malattie infettive nella storia, e raccontavo ai bambini della grande difficoltà per cercare di eliminarle dal pianeta raggiungendone l’eradicazione come era avvenuto per il vaiolo.

Una delle malattie che compariva più frequentemente nei miei racconti era la tubercolosi, proprio in ragione della nuova esperienza con l’Associazione, ma anche perché mi consentiva molteplici collegamenti con letteratura, arte, teatro, opera, cinema, così come riferimenti a importanti e conosciuti personaggi del passato.

Raccontavo le missioni compiute da Big George dirette non solo a studiare ma anche a insegnare a riconoscere e curare la tubercolosi laddove queste conoscenze mancavano, e ricordavo sempre come fosse fondamentale in questi casi un impegno congiunto di tutte le forze in campo, da ogni parte del mondo, per poter raggiungere dei buoni risultati nella ricerca scientifica. E di come fosse un dovere quello di intervenire attivamente da parte di chi vive in condizioni sociali privilegiate.

Soprattutto Edoardo, il più piccolo, era molto impaziente e agitato perché proprio quel giorno avevamo saputo che una bimba di un’altra scuola era stata colpita dalla tubercolosi. Iniziò quindi a chiedermi quanto la malattia avesse già colpito i bambini in passato, quanto potesse colpire oggi e in futuro i più piccini, come poteva essere evitata e combattuta…

La letteratura ci aveva già rivelato di alcuni fanciulli colpiti da questa terribile malattia. Avevamo già parlato di Ranocchio narrato da Verga in Rosso Malpelo e da loro studiato a scuola, dove si poteva ben comprendere come condizioni igieniche, malnutrizione e povertà potessero incidere sulla diffusione della tubercolosi. Avevamo parlato dei figli di Molière, anche loro vittime della consunzione e più volte ricordato uno dei miei musicisti preferiti, Chopin, ammalatosi di tubercolosi già all’età di otto anni (poco meno dell’età di Edoardo), e di Sophie, l’adorata sorellina di Edward Munch raffigurata dall’artista nel dipinto La fanciulla malata che morì giovanissima di tisi lasciando il fratello in un tremendo sconforto.

Questa volta però, sia Edo che Gianmaria cercavano e reclamavano un racconto o una testimonianza che potesse dare loro speranze sulla cura della tisi e che offrisse prospettive concrete di sopravvivenza per i bambini colpiti. Allora mi venne l’idea di trarre spunto proprio da una recente ricerca condotta assieme ad alcuni colleghi israeliani e tedeschi e pubblicata sull’Israel Medical Association Journal.

Si trattava della supposta e discussa immunizzazione degli ebrei alla tubercolosi tra fine Ottocento e inizi del Novecento facendo riferimento al Conflitto bellico; un tema particolare e non facile da spiegare perché avrei dovuto adattare la nostra ricerca a un ‘pubblico’ di bambini con bambini protagonisti.

Per farlo decisi che avrei seguito la traccia suggerita dagli spettatori di casa, peluche inclusi, che, come di consueto, intervenivano nello stile Muppets Show con le voci narranti (tipo ventriloqui) di Edo e Gianmaria in modo che le domande più scomode e imbarazzanti venissero proposte dai loro inseparabili e inanimati compagni della notte.

Non fu necessario neppure riflettere su dove e come partire perché Edo iniziò subito col chiedermi se anche Danka, una delle bimbe ebree nel film Schindler List di Spielberg e suo personaggio preferito, avesse contratto o rischiato di contrarre con i suoi compagni la tubercolosi o si fosse salvata perché immune o immunizzata. In realtà il riferimento del lavoro di ricerca era al Conflitto mondiale e quindi alla Grande Guerra ma, visto che Edo individuò il film di Spielberg riferito alla 2a Guerra mondiale, da lui più conosciuta, decisi di contestualizzarlo in quel periodo.

Iniziai allora a costruire questo nuovo racconto partendo proprio da lì, narrando che Danka era figlia di un grande musicista polacco e di una pittrice francese perseguitati, come molti artisti e intellettuali, durante quel periodo buio della storia. Per questa ragione Danka era stata affidata al nonno, un medico polacco studioso delle malattie infettive e ‘graziato’ dal regime proprio in virtù delle sue doti di scienziato in questo settore e quindi considerato un’utile risorsa da avere a disposizione in ambito medico-scientifico.

Danka passava gran parte delle sue giornate nel laboratorio della clinica dove lavorava il nonno con colleghi di diverse etnie e con diverse specialità mediche. Qui seguiva gli esperimenti e le visite ai pazienti che il nonno faceva con meticolosa cura e la sera ascoltava i suoi dettagliati resoconti delle ricerche sull’immunità degli ebrei nei confronti di questa malattia ‘millenaria’ così insidiosa e pericolosa.

Finché una sera, prima di andare a dormire, il nonno rivelò a Danka un grandissimo segreto: proprio nel laboratorio da lui diretto veniva prodotta una ‘pozione magica’ di nome yeshûâh, in ebraico ‘liberazione’, la cui preparazione e composizione gli era stata consegnata da un Elfo di nome Little Koch in una notte di Natale nel periodo dell’occupazione nazista.

Si trattava di una pozione straordinaria e miracolosa la cui composizione era stata approvata dal Mistero e affidata solo al nonno di Danka affinché potesse diffonderla all’intera comunità dei suoi piccoli e indifesi confratelli in modo da proteggerli tutti dalla tubercolosi. E la ragione della scelta era una specie di ‘compensazione’ per essere già stati così duramente colpiti dalle persecuzioni razziali e dalle leggi antisemite.

Danka era sempre affascinata da questi racconti e faceva tante domande al nonno per comprendere meglio la procedura di immunizzazione e le modalità di diffusione di questo ‘esclusivo scudo protettivo’. Ma una mattina accadde qualcosa di particolare che avrebbe poi segnato i loro destini…

Quel giorno all’alba Danka decise di fare una passeggiata lungo il silenzioso e desolato viale alberato della clinica per ammirare il candido spettacolo che offriva la copiosa nevicata della notte. Non appena giunse alla fine del perimetro consentito e delimitato dal filo spinato, udì provenire da una siepe una vocina che chiedeva aiuto e scorse tra i cespugli la sagoma di un bimbo coperto in parte dalla neve ancora fresca. Il bimbo, che appariva dolorante, era riverso sul selciato, indossava una tuta a righe ed era coperto solo con un piccolo scialle di lana liso e rosicchiato che sembrava avesse affrontato uno squadrone di topi affamati.

Si chiamava Olaf, proprio come il pupazzo di neve di Frozen, ed era un bimbo norvegese sfuggito al rastrellamento che i nazisti avevano compiuto il giorno prima nella scuola del paesino vicino sequestrando e rinchiudendo tutti i bambini affetti da tubercolosi. Bambini indigenti e malnutriti appartenenti alle famiglie dei quartieri degli operai e dei minatori della zona, che vivevano in ambienti malsani e in condizioni igieniche pessime e quindi più vulnerabili e aggredibili dalla malattia. Bambini la cui destinazione sarebbe poi stata quella dei lager

Olaf era riuscito a fuggire e aveva vagato tutta la notte al freddo sotto la forte nevicata alla ricerca di un riparo sicuro ma non l’aveva trovato. Il bambino, sofferente e claudicante, venne immediatamente condotto da Danka in clinica dal nonno che lo visitò riscontrando, oltre a uno stato di ipotermia, una brutta polmonite ma soprattutto, ahimè, la temuta tubercolosi.

Danka chiese al nonno di fare il possibile somministrandogli la pozione magica e poi pregò tutta la notte per il suo nuovo amico. Ma nonostante tutto, le condizioni di Olaf peggiorarono nei giorni seguenti e il bambino, indebolito e triste, iniziò a stare sempre più male.

Il nonno ricordò a Danka che la pozione magica non poteva funzionare per tutti e che purtroppo bisognava considerare l’eventualità che Olaf non avrebbe potuto farcela.

Ma fu proprio in quel momento che Olaf, udite quelle fatali parole sul suo destino, si ricordò che nella città dove suo padre era stato ambasciatore per la Norvegia viveva un professore italiano, famoso per le rilevanti scoperte sulla tubercolosi e per aver salvato molte persone. Il professore si chiamava Edoardo Maragliano ed era di Genova.

Le sue preziose ricerche e la Scuola da lui fondata lo avevano qualificato a livello internazionale come un vero pioniere in quell’ambito. Fu allora che Danka, colpita dalla notizia, decise di partire per Genova intraprendendo un rischiosissimo viaggio, sia per le condizioni metereologiche di quel gelido inverno, sia per l’impervio percorso che avrebbe dovuto condurla a oltrepassare i confini e le Alpi con tutti i pericolosi controlli dei tedeschi.

Il nonno non riuscì a trattenerla e Danka partì con il primo treno diretto in Svizzera, nascosta all’interno del gelido vagone merci.

Poco prima di raggiungere il confine con la Svizzera scese dal treno per raggiungere un paesino vicino, indicatole da un paziente del nonno, dove avrebbe potuto trovare una famiglia di pastori, amici fidati, che le avrebbe dato riparo e aiutata a oltrepassare il confine.

Così infatti avvenne e, superato il confine, Danka venne presa in carico dalla Croix Rouge riuscendo così ad arrivare a Genova dove fu accolta e ascoltata da alcuni allievi del professore grazie a una lettera di presentazione scritta dal nonno.

Gli studi e le ricerche compiute fino a quel momento a Genova non erano però sufficienti a garantire risultati significativi di guarigione totale dalla malattia e avrebbero comunque dovuto essere analizzati e confrontati con la Scuola francese di Calmette-Guerin che pure stava effettuando indagini innovative nello stesso settore. Confronto che però non era possibile effettuare in quel momento per via della guerra in corso.

Per Danka invece il tempo era vitale e bisognava procedere immediatamente con l’incrocio di quelle informazioni e di quei dati per tentare di salvare il suo amico Olaf e gli altri bimbi malati. Si fece così consegnare la documentazione dai ricercatori italiani e la portò a Parigi dove riuscì a incontrare gli studiosi francesi recuperando altre preziose formule che, sommate alle precedenti, acquisivano una straordinaria e inedita rilevanza scientifica.

Un sacerdote francese amico della madre di Danka fece quindi predisporre una ‘staffetta diplomatica’ per far riaccompagnare e scortare la coraggiosa fanciulla in Polonia attraverso un percorso rapido e protetto. Raggiunta finalmente la clinica, il nonno si mise subito a studiare le preziose informazioni ricevute e dopo poco tempo riuscì a completare i suoi esperimenti perfezionando la pozione magica in modo che fosse somministrabile a tutti i bambini.

Il problema diventava ora quello di testarla per verificarne efficacia, tollerabilità e immunogenicità. E il primo paziente fu proprio il nostro Olaf che, oramai deperito e provato da settimane di malattia, accettò di buon grado di sottoporsi a questa sperimentazione.

Già dopo pochi giorni il suo stato di salute andò migliorando e le sue buone condizioni generali convinsero il nonno, dopo neanche una settimana, a estendere l’esperimento agli altri bimbi rinchiusi nel ghetto della tubercolosi.

Fu così che i fanciulli del ghetto furono tutti sottoposti alla somministrazione di questo nuovo ‘farmaco’, guarirono in breve tempo, furono liberati dal ghetto e riuscirono a ritornare alle loro famiglie completamente sani e immunizzati. Per loro la vita era davvero cambiata: erano guariti e si avviavano ad affrontare un nuovo cammino. E per il nonno fu un grande risultato perché era riuscito a creare un nuovo farmaco universale per bambini: lo yeshû‛âh for children.

Edo e Gianmaria quella sera avevano compreso l’importanza della ricerca, della condivisione e delle collaborazioni tra gruppi di ricerca che deve essere condotta senza sterili e inutili gelosie. Avevano capito l’importanza della cooperazione internazionale tra Stati, l’importanza di comparare tecniche e metodologie differenti accomunate però da uno spirito comune: quello di ‘migliorarsi sempre e di aiutare gli altri’ costruendo qualcosa per la collettività.

L’obiettivo principale doveva e deve essere sempre quello di ottenere il bene di tutti lavorando in un’ottica di aiuto, conforto e solidarietà. Si erano resi conto che chi ha maggiori possibilità e vive in un contesto sociale privilegiato ha il dovere di mettere a disposizione degli altri impegno, mezzi, competenze, professionalità e risorse di ogni tipo, anche finanziarie, al fine di superare le condizioni e le problematiche sanitarie ancora oggi presenti nella nostra società globalizzata in modo, ahimè, differenziato. Globalizzazione sì dunque, ma intesa in una direzione di universalità, di parità di cure e di condizioni, soprattutto quando si parla di bambini. One world – One health.

Allora, in questo finale di racconto, mi accorsi che non solo Gianmaria e il piccolo Edoardo non si erano ancora addormentati, ma anzi avrebbero continuato a discutere per ore su questo tema anche se la nanna ormai bussava alla porta ed era arrivato il momento di congedarci.

Congedarci però, almeno quella sera, non più con le consuete note di De Gregori ma accompagnati da Cat Stevens. Non solo perché, come avevo già loro raccontato più volte, era stato lui stesso colpito dalla tubercolosi (e si era salvato) ma perché questa malattia gli aveva cambiato sensibilmente la vita…

Concludemmo dunque con un messaggio ben augurante riprendendo le parole della sua famosa canzone it’s not time to make a change (togliendo il ‘not’) che sarebbe poi diventato il giusto segnale e puntuale richiamo per quello che è ancora oggi la tubercolosi nel mondo e la lotta di tutti noi di StopTB e di tanti altri per eliminarla.

E, guarda caso, il titolo di questa canzone è proprio Father and son come in quella nostra notte incantata… che non dimenticheremo mai…

 

 

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