“IN PRIMA LINEA” di Danilo Buonsenso

30/04/2020

 

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“Chiara ci ha lasciato”. Ce lo ha comunicato la mamma, donna giovane e bella, con la quale abbiamo condiviso sette lunghi anni. Quegli occhi grandi e dolci si sono chiusi, per sempre. Quello sguardo era l’unica cosa rimasta indenne ed espressiva, in un corpo che negli anni era diventato gonfio, e che necessitava di una cannula tracheostomica per respirare, e di un bottone gastrico per essere alimentata.

Per sette anni, tra alti e bassi, quello sguardo aveva resistito. Da quando, alla tenera età di un anno, un indimenticabile giorno Chiara (nome fittizio) iniziò a presentare una febbre di origine sconosciuta. Solo dopo quattro giorni di febbre e di convulsioni, fu trasferita presso il nostro ospedale dove capimmo che aveva la tubercolosi. Ma era troppo tardi, il cervello di Chiara era ormai pieno di proiettili (tubercolomi) sparsi ovunque, e sebbene fosse sopravvissuta, sapevamo che non sarebbe stata la stessa cosa. Pochi mesi prima, lo zio con cui Chiara era stata a contatto, aveva avuto la tubercolosi (TBC), ma nessuno aveva detto a quella famiglia che Chiara avrebbe dovuto assumere una profilassi, che con una probabilità maggiore del 95%, le avrebbe risparmiato quel calvario e cambiato la vita.

Ero al primo anno di specializzazione e fu la prima meningite tubercolare con cui ebbi a che fare.

Ma nonostante avessi 25 anni, la mia storia d’amore con la TBC era iniziata molto prima.

Senza saperlo, mi innamorai dei Mycobatteri già all’ultimo anno di liceo, quando vidi in televisione Che Guevara viaggiare in moto nel Sud America per dedicarsi alla cura delle popolazioni più remote e più bisognose. Fu allora che decisi di fare medicina e di cercare di farlo in quel modo.

L’anno dopo, al primo anno di università, l’amore esplose studiando Storia della Medicina.

Capii subito, dai libri di Cosmacini, che quel M. tuberculosis aveva qualcosa di “speciale”, ma soprattutto un rapporto speciale con l’essere umano. Questo nostro stretto conoscente convive con noi da migliaia di anni e nel corso dell’evoluzione non ci ha mai abbandonato sviluppando incredibili e ancora non del tutto chiari sistemi di sopravvivenza nel nostro organismo (nei tubercoli), per poi presentarsi in maniera subdola, mangiando lentamente il nostro corpo, in modo da avere tutto il tempo necessario per crescere e al contempo contagiare altre persone. È stato con l’essere umano da sempre condizionando in un certo modo la storia dell’uomo, non solo con i milioni di vittime che causa ogni anno da secoli, ma avendo, da sempre, un impatto enorme sulle società; e soprattutto di alcune società, più fragili, remote, deboli e povere.

E nel 2004, dopo millenni, la storia non era cambiata molto. Il destino ha voluto che mi venisse assegnata una tesi sulla TBC, incredibile…!

Valutando venti anni di TBC nei due principali ospedali pediatrici romani, ebbi la conferma che ancora oggi la TBC colpisce i più deboli e i più poveri rappresentando una vera e propria patologia sociale, per molti versi conseguenza delle fallimentari politiche di tutti gli Stati mondiali.

Mi resi conto che ci sono tanti modi per fare il medico occupandomi di TBC, non avevo di fronte solo una malattia ma decine di malattie diverse, non bastavano le ricerche di laboratorio ma bisognava scendere in campo in prima linea, entrare nelle società, soprattutto quelle più deboli, conoscerle e comprenderne le politiche per trovare delle soluzioni. Occuparsi di TBC avrebbe significato studio e ricerca, ma allo stesso tempo attivismo sociale e politico. E per me, che sono un animale sociale amante spasmodico di questo mondo e delle culture, sarebbe stato il modo migliore e più completo di interpretare il ruolo del Medico. E poi, amavo il surf, amavo prendere la mia tavola da surf non appena possibile e volevo surfare le onde di tutto il mondo.

Raggiunsi così il Desmond Tutu Tb Center, vicino Cape Town (Sudafrica), forse il più famoso ospedale al mondo di tubercolosi pediatrica che fortunatamente si trovava in una delle zone al mondo più ricche di onde, ma anche di squali bianchi… E sebbene in Sudafrica ci siano i tassi più elevati di Tn (e coinfezione Tb-Hiv) e in quell’ospedale se ne vedevano di tutti i tipi, sentii dentro di me che la risposta alla tubercolosi doveva partire a monte, non negli ospedali, ma nella comunità.

Fu così che, tornando in Italia, decisi di fondare una mia onlus iniziando un progetto sociale e sanitario in Sierra Leone, lì dove esplodeva proprio in quei mesi l’epidemia di Ebola, con l’intento di lavorare nelle periferie. È proprio lì che incontrati John (nome fittizio), uno dei giovani più conosciuti del villaggio, proprietario di una bellissima baracca vista mare dove vendeva bevande. Tutti ne parlavano come di un ragazzo in forma, molto simpatico e socievole, che però negli ultimi tempi era cambiato. Quel ragazzo africano muscoloso e simpatico, era stanco e astenico, spesso non lavorava perché preferiva riposare, mangiava poco e aveva perso peso. Diceva di non fumare e non bere, ma ricordo bene quel giorno in cui lo trovai con i suoi vecchi vestiti che gli andavano ormai larghi, con una birra e un pacchetto di sigarette. Aveva anche la tosse, ormai da qualche mese. Era malato, ma non così tanto da avvertire la necessità di chiudere la sua attività, perdere le poche possibilità di un guadagno e farsi curare.

Capii subito che avevo davanti a me tutto ciò che rappresentava la tubercolosi; nel contempo anche il perché fosse così difficile alla comunità medica raggiungere la maggior parte delle persone con TBC. In una periferia molto povera, dove i ragazzi vivono numerosi in piccole stanze poco ventilate, senza centri di salute, le persone non gravemente malate non lasciano il lavoro e provano ad andare avanti. E la TBC è furba e subdola: ti fa andare avanti nella tua routine, mentre ti logora si diffonde per contagiare altri, e così via. Il tuo corpo perde peso, perde appetito. La TBC ti mangia lentamente, perché deve raggiungere gli altri. Non avevo dubbi che John avesse la TBC, gli feci fare il test e l’esame batterioscopico che risultò ovviamente positivo. Ma cosa vuol dire avere la tubercolosi in un villaggio remoto senza centri di salute?

Significa che tutti sanno cosa hai e che rappresenti un pericolo per gli altri, che difficilmente puoi permetterti di smettere di lavorare e di pagare i trasporti per raggiungere il centro di salute più vicino, per le visite e per i farmaci. Qui regna il sommerso, morti che restano sconosciuti e nuovi infettati che anch’essi restano sconosciuti.

Come possiamo fermare tutto ciò? Dove dovremmo investire di più? Nella ricerca o nelle comunità?

Oggi ho la fortuna di poter lavorare con importanti ricercatori italiani ed europei per la ricerca di nuovi biomarcatori che siano in grado di definire lo spettro dell’infezione tubercolare, individuare i soggetti che svilupperanno la malattia e monitorarla, soprattutto nella nuova era della TBC multifarmaco resistente. Ma l’esperienza mi ha insegnato che per trovare la risposta giusta e tentare davvero di combattere la TBC, non basta restare in laboratorio o nell’università, ma occorre scendere in campo, in prima linea, raggiungere le periferie, raggiungere gli ultimi, e lottare al loro fianco.

 

 

 

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