“SASHA” di Patrizia Ortolani

30/04/2020

 

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Ho incontrato Sasha in una situazione di emergenza quando le sue condizioni cliniche richiedevano un provvedimento urgente prima di capire con chi avessi a che fare. Nei giorni immediatamente precedenti, nell’infermeria del carcere c’era stato un caso di tubercolosi e l’allarme era ancora vivo. Sasha non era in condizioni critiche, almeno all’apparenza, ma presentandosi anch’egli con febbre che non rispondeva ai trattamenti convenzionali era stato indirizzato rapidamente al ricovero ospedaliero in unità di malattie infettive, per consentire l’isolamento respiratorio.

L’ho visitato per la prima volta all’arrivo in ospedale dove si trovava ammanettato al letto. Ho avuto compassione per la circostanza subito dopo averla avuta per l’uomo, cachettico, febbrile, disponibile e riconoscente per l’attenzione.

Ho pensato che tenere un malato ammanettato al letto fosse un provvedimento medievale inaccettabile nel contesto di cura di un ospedale. L’agente che lo sorvegliava mi ha esplicitamente detto – lei faccia il suo lavoro che io faccio il mio – come se il contenimento di un mio paziente fosse cosa che non mi riguardasse.

– Questo scappa, è uno zingaro –.

Per gentile concessione lo hanno ammanettato con una coppia di manette, che consentiva un minimo di movimento in più. Almeno poteva girarsi sul fianco.

Nei giorni successivi gli hanno concesso gli arresti domiciliari in ospedale, lo hanno ‘spiantonato’, e infatti è evaso. E lo hanno ripreso mentre era in fila alla mensa della Caritas, una ingenuità poco comprensibile dopo aver conosciuto la scaltrezza del soggetto, forse legata alle precarie condizioni o alla fame. O forse alla rassegnazione e all’abitudine.

L’evasione aveva aggravato la situazione logistica, perché Sasha, affetto da TBC miliare, necessitava di stretto monitoraggio clinico e quindi di continuare l’ospedalizzazione. Contemporaneamente e per inopinata coincidenza, altri due detenuti erano ricoverati in stanze distinte dello stesso reparto, richiedendo da parte degli operatori della polizia penitenziaria, un impegno di risorse straordinario per le già contingentate disponibilità di personale. Di conseguenza ne scaturiva una pressante richiesta di soluzioni alternative, che nella pratica potevano tradursi nella dimissione con ritorno in casa circondariale, assolutamente prematura clinicamente, o nella dichiarazione di incompatibilità con la carcerazione che poteva significare l’autodimissione del paziente e il suo conseguente ritorno in strada.

L’amministrazione penitenziaria infine ha rispolverato, dopo anni di abbandono, la disponibilità di una cella di sicurezza all’interno dell’ospedale. Sasha è stato trasferito in un locale appositamente attrezzato per la sorveglianza di detenuti in regime di degenza ospedaliera. Nei fatti si trattava di una grata metallica che separava il degente dal corridoio di accesso, una parete costituita da una vetrata attraverso la quale gli agenti di custodia sorvegliavano il paziente 24 ore su 24.

La stanza non era dotata di finestre, consisteva in uno spazio per due letti contigui, il bagno all’esterno, nel corridoio, per cui per accedervi era necessario richiedere agli agenti che aprissero la grata. Le condizioni erano idonee all’isolamento respiratorio e alla restrizione della libertà richiesta maGli agenti erano nuovi all’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale e giustamente preoccupati di rischiare la propria incolumità personale. Fino a che non sono stati adeguatamente istruiti, hanno trascorso interi turni di servizio indossando la mascherina FFP2 per protezione.

La prima notte in stanza-cella Sasha l’ha trascorsa completamente insonne. L’infermiera del turno di notte semplicemente ha dimenticato di portargli il sonnifero, a compensare almeno parzialmente l’effetto dell’alcol cui Sasha era dedito prima della cattura. La mattina successiva, nel portargli la colazione, lo avevo trovato nello stesso tempo prostrato e arrabbiato, consapevole di aver diritto a un trattamento diverso. Scivolando sul pregiudizio mi sono lasciata scappare una frase infelice.

Se si trovava in quella condizione probabilmente non era stato un ‘bravo ragazzo’. Fulminandomi con lo sguardo e con le parole aveva subito replicato: “allora tu mi giudichi!”.

Era ben evidente che in quella stanza, con un’unica finestra coperta con una lamina di compensato sbrecciata, senza televisione, senza alcuna compagnia se non quella degli agenti, con l’unico svago della lettura di vecchi giornali illustrati di recupero, il tempo si dilatava in maniera intollerabile.

A ciò si aggiunga che Sasha non aveva nemmeno gli occhiali per leggere. Non solo. Non avendo supporti di alcun tipo, aveva ancora addosso gli indumenti del giorno della cattura, una vecchia maglia di lana e un paio di calzoni logori. Dettagli? Certo. Tanto insignificanti che nessuno ne aveva preso atto.

Che dire dei pastiLa stanza-cella era distinta dal reparto, il vassoio del vitto a Sasha arrivava in ritardo. Ma Sasha già meditava, in proposito, di ricorrere al più sfruttato dei sistemi di rivendicazione in auge all’interno del carcere, che è lo sciopero della fame.

Oltre a temere per la sua salute mentale, ho pensato senza esprimerlo che mettesse in atto un altro e più pericoloso strumento di protesta, lo sciopero della terapia. Se avesse rifiutato il trattamento, la gestione della situazione sarebbe diventata davvero complessa.

Non avevo calcolato la potenza dell’istinto di sopravvivenza. Sasha voleva vivere, voleva guarire, non ha preso in considerazione l’idea di non curarsi.

Ho guadagnato un paio di giorni fornendo carta e penna al detenuto-malato mentre da qualche parte è spuntato un paio di occhiali, con una stanghetta rotta ma idonei almeno all’essenziale servizio di consentire la lettura. Su mio invito Sasha ha cominciato a mettere sulla carta la sua storia. Non sapevo ancora che aveva scritto anche in passato e che era anche bravo. Aveva partecipato a un concorso letterario durante una precedente carcerazione vincendo un premio per un racconto breve. Era dotato di spirito arguto e di una sensibilità non comune per gli atteggiamenti delle persone con cui veniva a contatto.

Ad ogni incontro imparavo a conoscerlo meglio. Ero la persona di maggior riferimento durante il periodo di isolamento sanitario in cui pochi si avvicinavano e nessuno si fermava a scambiare due parole.

Ma lui, lui come viveva questa situazione dall’altra parte della prospettiva? Me lo ha scritto in una lettera arrivata mesi dopo, che diceva:

Quando ho capito cosa mi sarebbe capitato, ho provato rabbia, paura, sconforto.

Poi però, grazie alla dottoressa, mi sono reso conto che con quella malattia non avrei dovuto convivere a lungo. Tutto inizia quando mi hanno portato in carcere nel mese di febbraio 2019. Perdere la libertà e cambiare modo di vivere porta sempre uno scombussolamento generale. Passati dieci giorni mi chiedono il consenso per farmi la Mantoux. Come da prassi, sul braccio mi hanno disegnato un quadrato con il pennarello nero. E proprio in seguito a quel test la dottoressa ha capito che c’era qualcosa che non andava. Sul mio braccio, dove era disegnato quel quadrato, la pelle era diventata viola. Quell’esame diceva chiaro che avevo la tubercolosi, ma nessuno mi aveva parlato di questo. La chiamano il killer silenzioso. Arriva di soppiatto, piano piano, nascosta tra gli altri sintomi. Poi però le analisi non lasciavano dubbio. Cominciavo ad avere continuamente febbre, tutti i giorni. Dimagrivo continuamente e facevo fatica a camminare. Ho passato quindici giorni in queste condizioni, con la febbre sopra 40 gradi.

Una sera, all’inizio del mese di marzo, mi hanno portato in ospedale. Una stanza tutta per me… Guardavo il soffitto della stanza mentre le guardie mi ammanettavano le due mani al letto. Facevo fatica ad accettare questo loro comportamento e a causa di questo mi ero incattivito verso le istituzioni.

Il mattino dopo arriva la dottoressa e si prende cura di me. Sapevo che il primo incontro dura 30 secondi e guardavo la dottoressa negli occhi, volevo trasmetterle qualcosa di positivo. Secondo me ti rendi conto di quello che hai perso solo quando sono passati quei 30 secondi. Non esiste una regola del primo incontro tra due persone. Un primo incontro dura solo 30 secondi. Se una persona riesce a trasmettere a un’altra persona qualcosa di interessante durante quei 30 secondi, quell’altra persona mi dedica tutto il tempo a disposizione. Tutto quello che succede durante quei 30 secondi si chiama ricerca di una comune intesa.

Mi dico: ho superato il primo momento di sconforto, le chiedo di essere chiara e di non nascondermi nulla riguardo la mia malattia. Ricordo ancora perfettamente tutto di quella mattina. La dottoressa ha iniziato a parlarmi, a raccontarmi che malattia fosse la mia, a che cosa avrei potuto andare incontro se non mi fossi sottoposto agli esami necessari.

Ricordo la rabbia, lo sconforto, la paura nascosta che era accompagnata da lacrime versate nella notte buia. Ero un uomo solo, abbandonato dalla famiglia, che non capiva fino in fondo quello che gli stava capitando. Continuavo a chiedermi perché proprio a me doveva capitare. Perché dovevo mangiare tutte le mattine un pugno di pastiglie.

Io prima sapevo che la mia malattia, la tubercolosi, era classificata come malattia incurabile. Tutto però cambia in poco tempo.

Su suggerimento della dottoressa ho iniziato un percorso di terapia. Durante quei giorni, quelle settimane, ho imparato ad accettare la malattia, che, attenzione, non significa per niente arrendersi ad essa, ma piuttosto guardare in faccia la realtà dei fatti. Ho accettato di convivere con lei, però speravo di guarire e avevo grande rispetto e stima per la dottoressa e il suo operato professionale, mi fidavo di lei.

Ogni volta che dovevo mettermi la mascherina facciale mi sentivo diverso. Le persone mi guardavano impaurite. Avevo bisogno di parlare con mio figlio e mia figlia, ma mai nessuno si è presentato alla porta di quella stanza. Ho capito che i sogni che cullavo potevano ancora realizzarsi ma dovevo gestire la situazione.

Oggi non dico che faccio quello che voglio, ma gioco a carte con gli amici in carcere. Vorrei che questo messaggio arrivasse a tutte le persone come me. Ho saputo di avere come compagna la TBC. Prima la accettate, prima farete questo percorso terapeutico, e prima riavrete la vostra vita. Io adesso ho la mia vita senza TBC grazie alla mia amica dottoressa.

Appena è stato possibile lo abbiamo ricondotto in carcere. Una ricognizione fatta insieme alla comandante del presidio che ha individuato un locale idoneo al mantenimento dell’isolamento ambientale. Si trattava di una cella singola all’interno di una normale sezione di detenzione.

Ci siamo preoccupati dello stigma legato alla malattia, dell’impossibilità di garantire la riservatezza dovuta. Sasha è stato molto forte. Ha accettato di rendere pubblica la sua diagnosi in cambio del reinserimento nella comunità penitenziaria.

Si rendeva necessario fornire dispositivi di protezione individuale a tutte le persone che in qualche modo dovevano entrare in contatto con lui, ma soprattutto era fondamentale istruire le stesse persone a un comportamento adeguato. Non sorprenda se la mia ormai personale battaglia doveva scontrarsi con situazioni paradossali in cui per esempio gli agenti di custodia avevano in dotazione filtranti facciali idonei, mentre ai detenuti che distribuivano il vitto veniva fornita solo una inutile mascherina chirurgica.

Tutti gli agenti e tutti i detenuti sono stati sottoposti a osservazione e a screening con intradermoreazione. Tutti i positivi sono stati profilassati. La buona pratica della ricerca delle forme latenti di TBC è entrata nella routine del carcere per ogni nuovo giunto che presta il consenso alla manovra.

La paura ha lasciato il posto alla consapevolezza

Nel momento in cui scrivo, la relazione di cura non ha motivo di avere seguito. Sasha è guarito. Sasha non è il suo vero nome, il racconto è drammaticamente reale.

Io sono il suo medico all’interno del carcere dove è ancora recluso, anzi, ero il suo medico, ora sono sua amica.

 

 

 

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