“LA MIA ANAYA” di Susanna Squellerio

07/06/2022

In un luogo sperduto del mondo viveva una fanciulla di nome Anaya.

Era la più piccola di una famiglia di ben sette persone: due mamme, papà, due sorelle, un fratello e poi lei.

Nel villaggio vivevano altre famiglie molto numerose ma la sua era la più fortunata; la loro capanna era vicino ad un rigagnolo d’acqua quasi sempre asciutto, ma era a due passi dalla loro casa.

La loro baracca era stata costruita con lamiere e teli di plastica trovati lungo la via per la città.

Dentro, poche cose, l’essenziale, forse un po’ meno.

Un pagliericcio grande e altri due piccoli, addossati, qualche coperta, il fuoco al centro della stanza, qualche pentola, i contenitori per l’acqua e null’altro.

Intorno alberi, polvere, odore acre di rifiuti e tanto chiasso.

I cani si aggiravano affamati, assetati e ammalati, in cerca di cibo.

La vita, i giorni scorrevano lentamente come se la miseria volesse asserire il suo protagonismo, un poco più a lungo, e con più forza.

Il campo era sorto da poco.

I migranti che vivevano al suo interno fuggivano da anni e da luoghi di tortura. Rifiuti umani in fuga. Famiglie intere scappate dall’inferno e braccate da un diavolo cattivo. Senza tregua.

Seduta su di uno scranno rotto Anya se ne stava lì a guardarsi i piedini scalzi, sporchi e impolverati. Non pioveva da mesi.

Mamma Efla chiamò. Oggi si poteva mangiare. Pane trovato nei cespugli della tangenziale.

Anya sarebbe andata a dormire, e forse oggi non si sarebbe svegliata con dolori alla pancia tanto forti da farla vomitare.

A quattro anni non si dovrebbe avere tanta fame.

Tutti lì sapevano come fare: si aspetta, con pazienza, poi passa!

Finalmente si addormentò. Stanca, sempre più stanca e dolorante. Non sognava mai. Cadeva in un sonno leggero, non come quello dei bimbi, ma come quello degli adulti fiutati e cacciati da predatori esperti.

Aspettano, aspettano, aspettano anche quando dormono.

Mattino.

Come sempre alla ricerca di cibo.

Troppe bocche da sfamare, troppo sporco, troppo dolore.

Nel campo due volte la settimana passava un’auto azzurra, pulita.

Pattugliavano il vuoto, gli invisibili, gli illegali.

Al suo interno, comodamente seduti, un uomo e una donna.

Uno sguardo all’insieme e poi di nuovo via, spariti nella polvere.

Così quel giorno arrivò l’auto.

Anaya sollevò il capo e guardò attraverso i capelli sudici le facce rosa dei passeggeri.

Lo sguardo di una donna incrociò il suo.

Occhi grandi e tristi della fame” pensò.

L’auto si fermò e le due persone scesero.

La donna si diresse lentamente verso la baracca dove viveva Anaya.

Hello, what’s your name?”

Anaya” rispose la piccola.

Where is your mami?”

Mami …” e puntò il dito all’interno del tugurio.

Elisa era un medico. Da poco laureata e con grandi aspettative. Spirito critico e intuitivo, intelligente, un poco cocciuta ma di buon carattere. Questo lavoro sarebbe stato temporaneo, era giusto per avere qualche soldo a fine mese e, tutto sommato, le stava piacendo.

Elisa aveva capito che in quell’esserino qualcosa non andava.

Aveva notato che aveva la pelle graffiata e molto irritata, ma non era quello il problema.

Chiese alla madre di poterla visitare.

Non fu facile. Anaya era spaventata, temeva le facessero del male, come aveva già visto fare qualche tempo prima, in un altro campo a Bologna.

Il medico ottenne il permesso di portare la bimba presso l’ospedale di fortuna adibito per emergenze.

Fu necessario lavare la piccola prima di poterla esaminare.

La scabbia le aveva prodotto ferite molto dolorose e pruriginose. Quello sarebbe stato il primo intervento sulla piccola: togliere di mezzo quei brutti parassiti.

Non ci volle molto per capire che Anaya era fortemente denutrita. Nell’insieme, era come tanti bimbi del campo, “normalmente” malati.

Un pochino di tosse, qualche colpo … nulla di serio.

Le diede una ciotola con pane e latte che la piccola divorò.

L’intuito del giovane medico le aveva suggerito di approfondire i suoi dubbi.

Esame del sangue e una radiografia. Poco alla volta, giusto per capire.

Ad Anaya venne affidato un letto, pulito, comodo.

Un bel musetto furbo e ora un vestito pulito. Aveva persino una bambola che la Dottoressa Elisa aveva comprato per lei, per farle compagnia.

Arrivarono i risultati degli esami.

Elisa aprì il plico e sbiancò.

La radiografia diceva chiaramente: tubercolosi.

Aveva capito che qualcosa di insidioso e grave aveva aggredito la bimba. Ora fame e stenti non importavano più. Non importavano più.

Si attivò immediatamente. Le cure sarebbero state lunghe e impegnative.

Avrebbe dovuto esaminare anche i suoi genitori, fratelli e sorelle. Per niente facile.

E qui inizia la storia, come molte altre, di vite strappate alla morte veloce per proseguire combattendo una morte lenta.

La tubercolosi si insinua, si accomoda, si estende dove trova alberghi accoglienti, cioè fragili, deboli, affamati e stanchi.

Così aveva scovato la piccola.

Anya, dopo mesi e mesi di cure, stette meglio e guarì. Fu una lotta difficile. Dottor Elisa non smise nemmeno un minuto di curare e osservare la piccolina.

Ora, ormai adolescente, ricorda Dottor Eli come la sua “Fairy”, la fata che scese dalla carrozza azzurra e volò da lei, la travolse di amore e la salvò.

Dottor Eli continua a cercare e salvare occhi scuri e affamati tra la moltitudine che ogni giorno vede dal finestrino della sua auto azzurra. Non è più un medico alle prime armi. Da allora lavora fra i profughi, nell’inferno dei campi, tra la polvere, le mosche, i ratti e la gente disperata che lei può salvare da fine sicura.

I soldi a fine mese? Chi li vede? Spesi dall’inizio del mese per comprare le bambole che tengono compagnia alle bambine che lei porta nell’ospedale del campo e alle quali offre quello che non hanno mai avuto: cibo, lenzuola pulite, un poco di sicurezza e bambole.

Sono la voce narrante di questo racconto nato da un’esperienza vissuta anni fa dopo aver visto una bimba correre, sporca e nuda, in un campo vicino a Bologna. Tentai di coinvolgere le forze dell’ordine e i servizi sociali, ma la macchina lenta delle istituzioni non permise a quella piccola di sopravvivere.

Un giorno tornai, la cercai e mi dissero che una malattia se l’era portata via. Loro non dicono tubercolosi, loro si vergognano. Allora capisci.

Ho voluto che la bimba del mio racconto si salvasse. Ho così potuto restituire a quell’altra bimba, quella sporca e nuda, la sua dignità.