Lettera Nigeriana – Bilik Fashanu

27/03/2024

Sono Bilik Fashanu, nata in Nigeria in una piccola valle accanto alla capitale Abuja dove, a causa della povertà e dei numerosi conflitti tra le varie tribù, vivere in serenità è  sempre stato  difficile. Nel 2017 ho deciso che la mia terra non poteva più offrire un futuro a me e al mio  bambino  e ho preso il primo barcone che salpava per Lampedusa, promettendo a mio figlio che, quando la mia situazione fosse migliorata, avrebbe potuto raggiungermi. Una volta raggiunto il suolo italiano, con i miei compagni siamo stati smistati in varie città ed io ho avuto la fortuna di arrivare a Bolzano, nel Trentino Alto Adige. Sono stata accolta inizialmente in Hotel, poi in un campo e, agli inizi del covid, ho trovato  sistemazione presso l’associazione  Schutzhutte . Per potermi mantenere ho incominciato a lavorare e l’ho fatto finché un giorno, nel 2019, sono stata colpita da insopportabili dolori alla schiena e alla pancia. Ho passato lunghe giornate al pronto soccorso, circondata da medici che non capivano cosa avessi; tutto ciò che dicevano non coincideva con il dolore che provavo e, ogni volta che tornavo all’ospedale avevo la certezza  che la risposta non mi avrebbe soddisfatto , non riuscivo ad essere capita ed ero certa che ciò non fosse dovuto alle difficoltà di lingua, ma al fatto di non trovare soluzione al mio problema di salute, che non mi permetteva di condurre una vita tranquilla.  Tutto ciò che prima mi sembrava normale ora sembrava insormontabile. Nel marzo 2021 i dolori sono diventati insopportabili, sentivo che il mio corpo mi stava abbandonando e la mia anima sembrava volere andarsene per sempre. Avevo solo vent’anni, di solito le ragazze a quest’età soffrono di ciclo, mal di testa , dolori temporanei che un antidolorifico poteva risolvere, ma per me non era così, i dolori non mi permettevano di dormire la notte, di sollevare un oggetto che pesasse più di 3 chili . Non riconoscevo più in me quella forza e quella tenacia che avevano fatto di me la ragazza che voleva fare di tutto per salvare il suo piccolo. Mi rendevo conto che ciò che avevo sognato forse non si sarebbe mai realizzato. Sono entrata nuovamente in ospedale, con poche speranze, delusa dell’Italia. Tutti noi africani, quando pensiamo all’Europa, la vediamo come la terra dei sogni, dove ogni nostro desiderio si avvera, dove c’è cibo  e sanità per tutti, ma adesso cominciavo a pensare che fosse tutta apparenza. Mi sentivo sempre meno capita, non riuscivo ad adattarmi al cibo italiano perché ero abituata al cibo tipico del mio paese. I giorni passavano  e vedevo medici fare avanti indietro dalla mia stanza , avevo la sensazione che il mio corpo mi stesse abbandonando. Avevo tante domande ma nessuna risposta , la tristezza colmava le mie giornate e la rabbia mi accompagnava in una continua ricerca dell’introvabile. Fino a che, due mesi dopo, si scoprì che soffrivo di “tubercolosi chiusa”, una malattia maligna che da anni si era impossessata del mio corpo. Una delle mie vertebre si è rotta e hanno dovuto inserirmi un apparato d’acciaio ma, ad oggi, il dolore non è mai passato e sapere che devo convivere con questi dolori fino alla fine della mia vita mi fa vivere male, con degli sbalzi d’umore pazzeschi , spesso arrabbiata con me stessa e pure con gli altri,  triste e delusa perché questa malattia,  che in Africa non avevo e che ho sicuramente presa in una delle strutture di accoglienza . La malattia non mi permette di avere una vita dignitosa, spesso ho la sensazione che se non raccontassi ciò che mi sta succedendo non riceverei alcun tipo di aiuto, sembra che occorra per forza fare pena per poter andare avanti…  Ho pure perso il mio lavoro, perché ovviamente il mio corpo non regge nessuna mansione a cui il mio basso livello di istruzione e di conoscenza della lingua mi permetterebbe di accedere. 

Fino ad ora ho combattuto, ma non sono riuscita a seguire la terapia a fondo, pur consapevole delle conseguenze che ciò comporta e solo da gennaio 2023 ho ripreso con costanza. Sapevo che se fossi diventata infettiva avrei detto addio alla mia libertà, che vale per me il mondo intero.  Sono ospitata in una struttura di accoglienza dove gli accordi nell’ultimo anno sono stati precisi: seguire la terapia, non saltare nessuna visita, e, data la mia instabilità, ogni giorno dovevo andare al distretto più vicino e prendere le medicine sotto sorveglianza dell’infermiera. Il sabato e la domenica, essendo il distretto chiuso, erano i volontari a presentarsi nella struttura per la somministrazione della terapia. Ovviamente la malattia gioca così tanto sulle mie emozioni da rendermi alcune volte insensibile verso gli altri, non mi sono resa conto che potevo persino diventare un pericolo pubblico, anche se continuavano a ripetermelo. Non nego che buttar giù di prima mattina 9 pastiglie a stomaco vuoto diventa disagevole, anche perché spesso il giorno prima ho mangiato poco a causa dei soldi insufficienti per poter acquistare alimenti nigeriani. Pur avendo diritto ad andare a recuperare alimenti alla Caritas, non lo faccio perché non sono di mio gradimento e non potendo permettermi di andare in un  negozio africano e comprarmi ciò che mi piace mangiare, questo diventa probabilmente  uno dei motivi per cui non  ho seguito la terapia costantemente; qualsiasi intralcio era motivo per sospenderla per settimane e anche mesi. Non avevo più le forze di combattere e nemmeno fiducia nelle persone; negli ultimi anni ho conosciuto molti operatori sociali e sanitari che dopo aver raccontato loro la mia storia, aperto il mio cuore rispondevano “purtroppo noi non possiamo aiutarla”. E’ diventato arduo per me instaurare dei rapporti con le persone perché ho la sensazione di sminuirmi raccontando le mie fragilità, divento sempre più fragile anche se agli occhi degli altri sono una signora aggressiva, non in grado di adattarsi al paese dove sta vivendo. Nell’ultimo periodo sono stata felice per pochi istanti, non perché non ci fosse nulla per cui poter sorridere ed essere contenti, ma perché ci sono stati dei piccoli traguardi come aver ottenuto i documenti e l’invalidità. Ma nulla che potesse ridarmi la mia forza, adesso la mia energia va tutta in lamentele, rabbia, tristezza, l’essere mai soddisfatta di ciò che ho.

A volte mi rendo conto di perdere la lucidità, non so se avviene esattamente a causa della malattia, dalla quantità eccessiva dei medicinali che devo prendere, da quanto arduo sia vivere in Italia in attesa di documenti con un sistema italiano che ti fa passare da un servizio all’altro per accedere al minimo vitale. Ho sofferto tanto e sto continuando a soffrire perché non riesco ancora a lavorare e permettere una vita dignitosa a me e a mio figlio, da alcuni anni sto vivendo in una struttura di accoglienza condividendo bagno e cucina con altre donne e i loro figli , dove ogni sei mesi cambiano perché trovano casa o una sistemazione migliore , mentre io sono lì dal 2019, non ho mai pagato l’affitto come fanno le mie coinquiline e  aspetto di ricevere una donazione mensilmente per poter accedere ai servizi di trasporto in modo di andar a far le visite in ospedale e acquistare gli alimenti .e sarò sempre legata a qualcuno per poter far passi in avanti. Ma io voglio essere libera, autonoma e indipendente , sono in grado di raggiungere gli obiettivi che mi sono fissata da anni ma appena inizio a  metterci mano , qualcosa va storto, il sistema territoriale ritiene che non ne ho diritto così inizia un  sentimento di rabbia nei confronti del servizio sociale e sanitario. 

Posso accettare la malattia e le sue conseguenze ma non il sistema poco funzionale per una malata di tubercolosi. 

Bilik Fashanu

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