Dicesti Trentatré – dr. Alessio Pampaloni

27/03/2024

Dopo quello che era accaduto, allontanarmi è stata la scelta migliore, fu un caso ma fu necessario.
Parlare di scelta è anche troppo presuntuoso, una sgradevole onniveggenza da santone, dal
momento che mentre preparavo tutte le mie cose per partire verso Pluca, maledicevo istante per
istante il destino che mi aveva portato verso quel posto così oscuro nel mio pensiero.
Il viaggio un autentico disastro, a causa del mare poco propizio la nave stette incerta fin da ultimo
basculante nell’insenatura del porto, e dopo circa tre ore di stallo, l’equipaggio più richiamato dalla
promessa di qualche amante che dalla coscienza marittima, decise di oltrepassare il frangiflutti e di
affrontare ventidue ore di mare agitato e relativa nausea. Stetti adagiato nel buio di una cuccetta
minuscola assieme ad altre tre voci orizzontali che raccontavano le loro promesse a se stessi,
ascoltavo come in un limbo dove non esiste differenza tra menzogne e verità.
Funziona così: ti vesti bene per andare a presentarti il giorno prima della presa di servizio, entri nel
reparto e con discrezione buongiorno, sarei il nuovo collega, c’è il primario? Lo trovo nella sua
stanza? Quali sono le tue esperienze? Qui vengono dipanate le eccellenze del reparto, chissà se avrei
potuto contribuirvi o quantomeno non deteriorare quel livello. Per i camici e le casacche ci è voluto
tanto tempo, a Pluca tutto viaggia per timbri, circolari e approvazioni, pratiche ed inferno di carta
che mal tolleravo. Per ovviare tenni per il tempo necessario un vecchio camice sottratto dalla stanza
medici, era un poco ingiallito, non si sa se dalla bile o dal tempo, ma mi stava discretamente. Mi
accorsi subito che nella tasca del camice si trovavano diversi fogli, numerati con una certa cura. Il
linguaggio non era prettamente quello medico anche se era chiaro che fosse stato scritto da un
medico perché ad una lettura più attenta veniva utilizzata con parsimonia tale terminologia. Il
manoscritto raccontava di un paziente,sempre indicato come M.Da quanto potetti capire il ricovero
doveva essere stato lungo e colmo di complicazioni. M proveniva da uno sbarco. M era stato dato
per spacciato più volte lungo la sua storia prima ancora che la sua storia in reparto cominciasse.
Prigioniero in Biali dopo la traversata del deserto, il suo giovane corpo di sedici anni aveva dovuto
subire bastonate, ripetute violenze sessuali e bruciature prevalentemente sulle spalle e intorno alle
scapole, il motivo di questa sede anatomica non risulta chiaro anche da ricerche che feci in seguito.
Una volta che i suoi aguzzini avevano concordato che le vessazioni potevano cessare, il corpo di M
era stato messo su un gommone verso il mare aperto, assieme a lui decine di futuri naufraghi
ammassati. Gli aguzzini pensavano che in mare il corpo morente di M sarebbe stato più semplice da
smaltire rispetto alla morte nel campo di prigionia. Contravvenendo a ciò che era stato previsto per

lui, miracolosamente M sopravvisse, riuscì tramite i soccorsi ad arrivare al porto di Pluca per poi
venire subito ricoverato.
La descrizione del ricovero non risparmia le complicanze che M e chi si prendeva cura di lui avevano
dovuto attraversare. Il male delle caverne aveva coinvolto entrambi i polmoni scavandoli per i due
terzi, inoltre da subito era parso chiaro che la malattia si estendeva anche a gran parte dell’intestino.
Pesava trenta chili e la sua cacca era fatta perlopiù disangue e muco.Non riusciva a mangiare niente
e nei primi tempi fu necessario posizionare un tubicino nello stomaco ed un catetere nella vena del
collo per mandare nutrimento direttamente nel sangue. Il cuore si trova incastonato tra i polmoni e
il lavoro si svolge in sinergia: il cuore pompa il sangue all’interno dei polmoni, il sangue viene
ossigenato e ritorna al cuore, così potrà essere condotto tramite una fitta rete stradale in tutto il
resto del corpo. Il cuore di M si era adattato suo malgrado al fatto che i due terzi dei polmoni erano
venuti a mancare a causa del male delle caverne, per cui per riuscire ad ossigenare la stessa quantità
di sangue nello stesso lasso di tempo, il cuore doveva lavorare più veloce, a riposo circa 110-120
battiti al minuto. Per circa due settimane fu necessario somministrare un farmaco per rallentare i
battiti del cuore di M, anche perché accadeva che M venisse colto durante il giorno da uno stato
febbrile particolarmente debilitante in cui il suo cuore raggiungeva frequenze di 200-210 battiti al
minuto. Per cercare di capire l’origine di questa febbre i colleghi discussero le probabili cause: si
pensò perlopiù che fosse tutta responsabilità del male delle caverne, o meglio il sistema immunitario
di M che si stava riattivando dopo tanto tempo di sopimento e debilitazione, e così fu inserito nella
sua già lunga terapia la brillantezza, due volte al giorno. La brillantezza dette quasi da subito un
effetto benefico, M ricominciava ad alimentarsi in maniera sufficiente con la propria bocca,
l’intestino si stava regolarizzando. Purtroppo pochi giorni dopo una nuova febbre più spossante
faceva scuotere il corpo di M. Fu deciso di prendere alcuni campioni del suo sangue per capire se
crescevano germi responsabili di quel nuovo malessere. I microbiologi individuarono che un fungo
cresceva indisturbato in tutti i campioni di sangue di M, un altro antibiotico era adesso necessario
per il suo organismo fragile.
Il manoscritto proseguiva a lungo sulle vicende di M, io ne intervallavo la lettura durante il giro visite
in corsia tra un paziente e l’altro, spesso ricevendo rimproveri dai miei colleghi più grandi che mi
vedevano perso tra quei fogli e poco concentrato. Non sentivo la necessità di portarmi il manoscritto
a casa dopo il turno di lavoro, la narrazione doveva proseguire tra le mura dell’ospedale, così mi
sentivo umanamente appartenere alle vite che avevano attraversato quel posto apparentemente
così asettico e istituzionale. Il rientro a casa era spesso carico di riflessioni, e non erano sempre

entusiaste, la disillusione lambisce immancabilmente la prassi medica specie nel suo principio. Più
spesso riflettevo sulle relazioni reciproche che il corpo umano intrattiene con le altre microscopiche
forme di vita, batteri virus funghi parassiti protozoi, e di come pensare che il primato di cittadinanza
nel mondo non possa appartenere alla specie umana come generalmente si possa presumere. Più
interessante sarebbe coabitare ragionevolmente lo spazio che ci è stato concesso, dove la vita in
tutte le sue forme rispetti la vita, una rispettosa comune biologica! Capire quello che stava
accadendo nel corpo di M era in termini microbiologici e politici più complesso. Una guerra civile
dove all’interno dello stesso corpo una forza, il male delle caverne, voleva dominare espandendosi
su tutto il territorio a disposizione, e di come voler estirpare questa forza con i farmaci fosse una
soluzione che rischiava di far avanzare altre forze in gioco, come era accaduto con il fungo. In tutto
questo rimuginare di nuovi pensieri angosciosamente eccitanti, le scorribande di ambientamento a
Pluca erano graziose. In compagnia delle giovani leve miei colleghi riuscivamo ad alternare sacro e
profano,ma senza eccedere: lunghe notti sulle panchine di piazza Torricelli, un dialogo fugace lungo
parco Serpieri, non preoccuparti che domenica pranziamo tutti insieme, vedevo muovere le sue
labbra, la notte si cerca di ammazzare il giorno fino a che è l’alba e tutto riacquista la sua forma, il
suo colore, il suo pidocchioso intendimento, e devi svegliarti, trovare il tempo di riempirti lo
stomaco, devi andare a lavorare.
Accadde che M, gli appunti del medico non stabilivano con certezza date e causalità, cominciò a
stare meglio, un connubio di quello che si dice in tali occasioni, l’organismo ha cominciato a
rispondere, le medicine stanno facendo il loro effetto. Nel manoscritto vi è descritto con dovizia di
particolari un momento che doveva essere rimasto impresso nell’autore: erano almeno due mesi
che M passava le sue giornate a letto in un groviglio di flebo e pannoloni, la febbre stava divenendo
un tormentoso ricordo ed era giunta l’ora di cercare di mettersi in piedi e salire sulla bilancia, quella
mattina vi erano due infermiere premurose e il medico per aiutarlo. Una volta sedutosi a bordo del
letto il primo tentativo risultò incompiuto, erano mesi che quelle gambe non sostenevano più il
tronco. Al secondo tentativo lo slancio di volontà di M e le braccia di chi lo stava curando riuscirono
nell’intento: nessuno lo aveva mai visto in piedi, toccava tranquillamente il metro e ottanta. Un
passo alla volta, sempre sorretto, si avvicinò alla bilancia e vi salì, il medico si chinò avanti sul
quadrante ed esclamò: trentatré! M, che non aveva caverne nella testa, già stava apprendendo i
rudimenti della nostra lingua e pensò bene di fare l’eco al medicastro…Cianciatrà!
Da qui la storia procede veloce, tutte le volte che le cose vanno bene il tempo si ostina ad andare
più veloce. M fu dimesso che pesava trentotto chili, in tre mesi di ricovero il suo peso corporeo era

aumentato di quasi un terzo del totale. Sì che era ancora debole, più della metà dei suoi polmoni
non c’era più, ma la vivacità di un ragazzo di sedici anni era reintegrata. Dopo varie ricerche per M
fu individuata una struttura con pochi ospiti giovani come lui, sulla costa, dove poter continuare la
terapia senza l’immobilità dell’ospedale. Da lì M una notte di fine inverno decise di scappare, o
meglio decise di scomparire, probabilmente per proseguire verso nord il suo folle volo. Sulla spiaggia
che pochi mesi prima aveva accolto il suo corpo inerme, adesso le sue esili gambe avevano posto le
orme verso un desiderio di libertà, quale libertà? Chissà in che mani di nuovi approfittatori aveva
adesso posto la sua vita? Per raggiungere chi, dove, cosa?!
Il manoscritto si conclude con queste domande di sconforto, l’autore doveva essersi talmente legato
alla sorte di M che la clinica aveva debordato verso la narrazione, credo che abbia scritto queste
poche pagine subito dopo aver saputo della fuga di M. Riteneva probabilmente che a volte gli sforzi
che si compiono per cercare di far star bene qualcuno vengano irrimediabilmente disattesi dal
destino o, se vi piace la scienza, dall’entropia insita nell’esistenza.
Terminata la lettura del manoscritto, le giornate a lavoro rientrarono in una certa routine scandita
dalla necessità di curare le persone ricoverate; non passò molto tempo che nella mia testa erano
affievolite la storia e le vicende di M. Un trillo fastidioso di telefono tuonò in reparto un pomeriggio
di inizio primavera, vado a rispondere: sono la Dr.ssa Castorp da Basilea parlo con un collega? Sì,
dimmi pure; avrei bisogno della documentazione di un paziente che avete avuto ricoverato lì da voi
diverso tempo fa di nome M, quindi è arrivato fin lassù a Basilea?! Sì adesso è ricoverato da noi in
gravissime condizioni è stato trovato nel retro di un camion quasi assiderato, capisco mi daresti il
tuo numero di fax?
Tornavo in macchina verso casa, la radio suggeriva segnali di vita più interessanti dei miei
Ti dimenticherai di me?
Ti dimenticherai di me?
Qualche mese dopo arrivarono camici e casacche.

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