Call TB (“le parole che non ti ho detto”) – Senatore

27/03/2024

Ottobre 2006

Uno squillo, due squilli, tre squilli…è incredibile come una giornata, all’apparenza come mille altre, possa trasformare un telefono in uno strumento capace di generare suoni così armoniosi. È la nonna che la sta chiamando. Si sentono sempre a quest’ora e, solitamente, sostenere la conversazione è un vero strazio. Le vuole un gran bene, sia inteso, è cresciuta praticamente con lei da quando sua madre ha pensato bene di lasciarla per volare all’altro capo del mondo e raggiungere l’amore della sua vita – “vado via solo qualche settimana” aveva detto -. E suo padre? Neppure sa chi sia.  Quando si trasferì dalla nonna aveva festeggiato da poco il suo decimo compleanno, il nonno era morto da qualche mese ma lo ricordava a stento. Aveva litigato con la figlia, Sara non ha mai saputo perché. La nonna le aveva detto che non amava il suo stile di vita superficiale e irresponsabile e così lei, per punirlo, gli faceva incontrare la nipote solo saltuariamente. Col tempo, attraverso i racconti della nonna, aveva imparato a conoscerlo e ad amarlo e, soprattutto, a condividere a pieno l’idea che aveva di sua madre. Non sa se la rivedrà mai più ma, di sicuro, non riuscirà a perdonarla per averla abbandonata in quel modo – “Irresponsabile e superficiale, hai proprio ragione nonno, ma direi soprattutto una grandissima stronza”. Che poi vivere con la nonna le piaceva davvero tanto, era così dolce e premurosa con lei e cercava in tutti i modi di non farle mancare nulla nonostante vivessero con qualche centinaio di euro che arrivavano dalla pensione del marito. È per questo che Sara si era ripromessa di cercare di pesare il meno possibile su di lei andando a vivere per conto suo non appena avesse compiuto 18 anni. E così fece. Poco più che maggiorenne, subito dopo il diploma, si adattò a fare ogni tipo di lavoro e andò a vivere per conto suo, in un appartamento alla periferia della città che divideva con altre tre ragazze, studentesse e lavoratrici fuori sede. “Non preoccuparti nonna, vengo a trovarti tutte le volte che posso ma tu, promettimelo, chiamami ogni sera!”.  

A rendere le telefonate con sua nonna dei macigni era la fatidica domanda che arrivava inesorabile e puntuale ogni sera “allora, come è andata la ricerca, oggi?” E la percepiva a pieno, con ogni cellula del suo corpo, la sua delusione, o forse era solo preoccupazione, quando le rispondeva ancora una volta e un’altra ancora “niente ‘no, anche oggi nisba”. Ma questa volta è diverso, stasera Sara non vede l’ora di parlare con lei, raccontarle tutto, e sentire la sua voce sorridere. Sì, perché oggi, dopo l’ennesimo colloquio di lavoro andato male, mentre cercava un po’ di consolazione in una tazza di cappuccino bollente – Sara adora il cappuccino – ha cominciato a scambiare due chiacchiere con una ragazza seduta al bancone del bar accanto a lei, che le racconta di aver cominciato da poco a lavorare in un call center della zona dove stavano cercando altro personale. E al colloquio Sara ci è andata e come e ora eccola, pronta a dare la bella notizia a nonna Lucia. Certo, la paga non è niente di che, e poi, almeno per ora, di un contratto a tempo indeterminato proprio non se ne parla, ma è pur sempre il suo primo vero contratto di lavoro. E poi, sempre meglio che fare consegne in bici, macinando chilometri al gelo, sotto la pioggia, e con gli automobilisti isterici che puntano come birilli chiunque osi frapporsi tra sé e quella nevrotica sensazione che hanno di essere costantemente in ritardo. “Alla grande, nonnina, comincio lunedì. Metti quel vestito rosso che ti sta così bene che stasera ti porto a mangiare la pizza, che per una volta il tuo diabete possiamo lasciarlo a casa a far compagnia alla fissazione che abbiamo per il risparmio”. 

Il lunedì Sara si presenta a lavoro con diversi minuti di anticipo, non sta nella pelle all’idea di cominciare. In questi giorni ha fantasticato tanto immaginando la sua scrivania, il suo ufficio – “chissà se ha la finestra con una bella vista” – e i colleghi con cui dividerlo – “spero di capitare in stanza con i più simpatici”. Ma una volta arrivata al terzo piano di quell’anonimo edificio si trova a dover fare i conti con una realtà ben diversa: il suo ufficio è un unico enorme stanzone di 500 metri quadri, la sua scrivania un tavolone con circa 15 postazioni affiancato a decine di altri tavoloni attorno ai quali siedono i suoi colleghi, ben 150 – “per il gioco delle probabilità, su un numero così elevato qualcuno simpatico deve pur esserci, almeno questo la mia fantasia deve averlo azzeccato!”. Le finestre ci sono, sì, ma sono talmente distanti dalla sua postazione che ciò che celano al di là continuerà a rimanere un mistero. A non avere le finestre, invece, sono i pochi uffici destinati ai responsabili e ai supervisori, disposti al centro dell’openspace forse per tenere sotto controllo l’esercito degli operatori telefonici. Ed è proprio una di loro che, vedendola spaesata, le si avvicina e le porge la mano “Buongiorno, sono Stefania, la responsabile, e tu devi essere la neoassunta. Benvenuta tra noi”. Stefania è una donna sulla trentina, un bel sorriso, uno sguardo acuto e vivace e una voce rauca,  tipica di chi fuma. Invita Sara ad accomodarsi nel suo ufficio per scambiare due chiacchiere e illustrarle il lavoro. Le spiega che il suo è un contratto di 6 mesi, rinnovabile, con turni di 6 ore e la possibilità, in prospettiva, di una stabilizzazione. “Ho notato che sei arrivata puntuale, anzi addirittura in anticipo, e con questo direi che sei partita proprio col piede giusto. Continua così!”. Poi l’accompagna alla sua postazione dove le fornisce istruzioni più puntuali ed operative e la invita a rivolgersi a lei o ai supervisori ogniqualvolta ne avesse avuto bisogno. 

Marzo 2007

I giorni scorrevano veloci, turno dopo turno, telefonata dopo telefonata, ma del contratto a tempo indeterminato neppure l’ombra. Eppure, Sara aveva sempre cercato di dare il massimo, mai un giorno di assenza, sempre disponibile a fermarsi oltre il suo orario quado le veniva richiesto. Nonostante il suo impegno, fino a quel momento, a parte Stefania il primo giorno, nessuno dei boss accennava alla possibilità di una stabilizzazione. Quella precarietà lavorativa le suscitava un profondo senso di disagio e incertezza. Temeva che sarebbe bastato un banale errore o un qualunque passo falso per far crollare quel castello di sabbia che, in un modo o nell’altro, le consentiva di arrivare a fine mese, seppur con non pochi sacrifici. E ora ci si metteva pure quella tosse fastidiosa e quella sensazione di debolezza estrema a minare ulteriormente la sua serenità. “Mi devo decidere a fare un controllino. Anche perché sono seduta talmente tanto vicina agli altri, che quando tossisco mi lanciano certe occhiate. Non riescono a parlare con l’utente, mi dicono stizziti!”. Ah, per inciso, alla fine la sua immaginazione non ci aveva preso neanche sul fronte colleghi; di simpatico, in quell’enorme stanzone, c’erano solo i fermacarte a forma di ranocchio e coccinella e i bicchierini del caffè colorati. Per fortuna che da qualche settimana in turno con lei c’è Gloria, la ragazza del bar che le aveva detto che al call center cercavano personale. Per quanto rimanesse sempre un po’ sulle sue, con lei riusciva a scambiare due chiacchiere durante i momenti di break e, ogni tanto, ci scappava persino qualche risata.  

“Tubercolosi!”. Come una pugnalata alle spalle inferta dal destino, la diagnosi era arrivata dopo una serie di accertamenti e di cambi di turno per poter andare agli appuntamenti senza dare troppo nell’occhio. Per la stessa ragione, aveva persino deciso di prendere qualche giorno di ferie piuttosto che di malattia per iniziare la terapia e sperare di tornare presto, come le avevano spiegato i dottori, a non essere più contagiosa. Il problema, però, è che fino a quel momento, e fino a diversi mesi prima che cominciasse a star male, c’era il rischio che potesse aver contagiato qualcuno. Era preoccupata soprattutto per la sua adorata nonna, non si sarebbe mai potuta perdonare di vederla star male o, peggio ancora, morire per colpa sua. “Stai serena, Sarè, che la nonna è forte. Anche il nonno ha avuto la stessa malattia e come vedi sono ancora qua, sana come un pesce, a parte un po’ di diabete!”. 

Quando Monica, Assistente Sanitaria dell’ASL, l’aveva chiamata per ricostruire a ritroso le persone che aveva frequentato, le aveva spiegato che, se positive a specifici test diagnostici, si poteva prescrivere loro una terapia sia per curare la malattia, se già in atto, sia per prevenirla. E così, senza alcuna esitazione, aveva subito detto “Nonna Lucia!”. Con la stessa prontezza aveva poi fornito i nomi delle sue coinquiline chiedendo tuttavia il favore di poterci parlare per prima. Ma quando Monica le aveva chiesto che lavoro facesse, in una frazione di secondo aveva visto scorrere dinanzi agli occhi gli ultimi cinque mesi della sua vita e un unico, angoscioso pensiero si era instillato nella sua mente: “il rinnovo del contratto!”. Mancava solo un mese al termine ed era certa che, se i responsabili avessero saputo della sua malattia, sicuramente l’avrebbero rispedita a casa. Chi vuole un’untrice nella propria squadra? E così, prima ancora che la coscienza potesse provare a far ragionare le sue angosce, aveva risposto “sono disoccupata da oltre un anno!”. Monica aveva provato ad approfondire la questione ma Sara si era mostrata più che convincente e, senza mai contraddirsi, aveva confermato di non aver svolto in quel periodo neppure lavoretti saltuari. 

Alla nonna, però, non aveva avuto il coraggio di dire quel che aveva fatto; le aveva insegnato a essere una donna onesta e sincera “Ricordati Sarè, i bugiardi sono come ladri, quindi meglio un’amara verità che una dolce bugia”. E sincera, fino a quel momento, lo era sempre stata. Ma questa volta proprio non poteva. Rischiare di perdere il lavoro era la sua preoccupazione più grande in quel momento. E così l’ASL invitò solo la nonna e le sue 3 coinquiline per eseguire i test; fortunatamente nessuna si era ammalata ma le 3 coinquiline avevano dovuto iniziare la terapia per prevenire, in futuro, la possibilità di ammalarsi. Ovvio – pensò Sara – viviamo in un appartamento minuscolo, ci sta che si siano infettate. Ma a lavoro, figuriamoci, non spiaccico una parola con nessuno…sono certa, non accadrà nulla… 

 

Aprile 2010

Al di là della ben nota scarsa propensione dei colleghi alla socializzazione, da quel giorno Sara aveva finito con l’isolarsi sempre più. Ormai stava bene, era completamente guarita ed era riuscita persino ad ottenere il tanto agognato contratto a tempo indeterminato.

Eppure quella bugia, quelle parole non dette, l’aver consentito ai suoi timori e insicurezze di prendere il sopravvento, l’avevano cambiata nel profondo.  Da quel momento aveva vissuto col timore costante che qualche collega potesse scoprire la verità o, peggio, che potesse essersi contagiato.

E così aveva finito col ridurre all’essenziale ogni tipo di interazione. Con Stefania in particolare, sebbene durante i primi mesi di lavoro fosse stata il suo riferimento più importante e le avesse insegnato davvero tanto, non riusciva neppure a sostenere lo sguardo, tale era il timore di deluderla nel caso avesse scoperto ciò che aveva fatto o, meglio, ciò che non aveva fatto…parlare!

E poi c’era Gloria, senza la quale non avrebbe mai cominciato a lavorare in quel call center e, quindi a firmare il contratto a tempo indeterminato. Nonostante l’enorme senso di gratitudine che la legava a lei, aveva smesso di scambiare anche solo due chiacchiere durante la pausa caffè, aiutata dal fatto che ormai, da anni, lavorava in una postazione lontana dalla sua, insieme ad un altro team.

Tra l’altro, era da un po’ che non la vedeva,  giravano voci che era stata poco bene e che aveva preso un periodo di aspettativa. In effetti, ora che ci pensava, aveva notato che era dimagrita tanto, ma ricordava di averle raccontato che era fissata con la dieta per cui, forse, aveva solo esagerato.

Un giorno, arrivata in ritardo per un guasto alla metro, Sara aveva riconosciuto Dora, l’operatrice dell’ASL che stava lasciando il palazzo del call center insieme ad altre due persone. Per quanto si fosse sforzata di approfondire, a lavoro nessuno sapeva niente, avevano solo visto parlare tre persone, tre donne per l’esattezza, con i responsabili in turno per poi allontanarsi,  insieme a una quindicina di operatori dello stesso team, in un’altra ala dell’edificio. “Quale team?” “Quello del quinto tavolone sulla destra”, le avevano risposto. Era proprio quello di Gloria! Ma no, non poteva essere ciò che stava pensando. Era impossibile.  Uno, erano passati troppi anni, e poi, a parte qualche chilo in meno, non l’aveva mai sentita tossire, e lei ricordava bene quanto fastidiosa fosse quella tosse e quel senso di costrizione che sentiva al petto. 

Aveva così finito con lo stroncare sul nascere quel dubbio che le si era insinuato nella testa, attribuendo il tutto a una serie di circostante fortuite, nient’altro che pura coincidenza.

 

Dicembre 2011

Stefania, rientrata da un viaggio all’estero, aveva cominciato a stare poco bene. “Si sarà presa chissà quale strana malattia tropicale” – aveva pensato Sara – “con quella fissa di visitare i posti più remoti del pianeta”. Lei, che il posto più esotico in cui era stata era Riccione dove, con i primi soldini messi da parte col nuovo lavoro, ci aveva portato la nonna, una settimana, pensione completa, da vere regine. 

Poi, un giorno, lei, come tutti i colleghi del call center, avevano ricevuto dalla direzione dell’Azienda una lettera dell’ASL nella quale veniva spiegato che si era verificato un caso di tubercolosi in un lavoratore del call center e che, in considerazione dell’elevata percentuale di positivi al test nei contatti stretti del malato, e tenuto conto del verificarsi, nel 2010, di un altro caso nella medesima sede di lavoro, si era reso necessario estendere lo screening a tutti gli operatori del call center. Venivano quindi inviati a sottoporsi l’indomani al test tubercolare organizzato presso la sala 5 del 3’ piano. 

Arrivato il suo turno, l’operatrice dell’ASL aveva chiesto a Sara se aveva mail fatto il test tubercolare in passato o se aveva avuto la tubercolosi. La sua risposta era stata un irrefrenabile pianto liberatorio.

Come aveva letto una volta da qualche parte…” Una bugia fa in tempo a compiere mezzo giro del mondo prima che la verità riesca a mettersi i pantaloni”.

E, a quanto pare, quel mezzo giro la sua, di bugia, l’aveva proprio fatto.

 

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