La Caverna – dott.ssa Maria Laura Stella

27/03/2024

L’odore dell’ospedale era molto diverso da ogni altro odore, era alieno e familiare insieme,
ed era inconfondibile. In tutti gli ospedali in cui era stato, e non erano pochi, l’odore era
sempre stato ciò che lo riportava alla realtà.
Anche questa volta non fece eccezione, e la prima cosa che gli venne in mente quando
aprì gli occhi, frastornato, fu che gli ricordava orrendamente il gusto del risciacquo rosa
che utilizzava il dentista da cui lo avevano portato quando era bambino. In un attimo
l’ombra di quella paura antica lo risvegliò completamente.
Si mise a sedere sul letto, le lenzuola leggermente inamidate si increspavano sopra alle
gambe magre. Cercò di mettere a fuoco lo spazio intorno a sè, e non gli venne così facile,
brutto segno. Si impose di mantenere la calma e si voltò di qua e di là: in effetti si trovava
in ospedale. La stanza era semplice e spoglia, con un ventilatore triste che cigolava
muovendo pochissima aria intorno, e due letti. Quello accanto al suo era vuoto e privo di
materasso, e gli parve un altro brutto segno.
Gli ci voleva assolutamente una sigaretta.
Scese malfermo dal letto, i piedi nudi sul pavimento grigio, e si precipitò a cercare
nell’armadietto la giacca di jeans che gli pareva di aver indossato, prima di svegliarsi lì.
Notò distrattamente che era ancora vestito: chiazze di vino vecchio e di chissà che altra
sporcizia rivaleggiavano fieramente con l’odore di disinfettante che lo aveva svegliato.
Pazienza. Sigaretta, sigaretta…. finalmente.
Il bagno era piccolo e pulito: accese la sigaretta ed aspirò come uno che asfissia, come
un uomo mezzo annegato che torna a galla. In quel suo mondo al contrario l’ossigeno
non valeva poi molto, ma la nicotina, quella era un altro discorso. Soffiò fuori un nuvolone
che pareva un minuscolo temporale, aprì la finestra e gli sembrò di stare leggermente
meglio.
In quel momento fu scosso da un accesso di tosse orribile, che sembrava originare dal
centro stesso del suo corpo, da un punto in mezzo al petto dove avrebbe detto esserci il
cuore, l’anima, la vita stessa. Si riverberava in tutto il torace, nella schiena, fra le spalle,
sbatacchiandolo, spezzettandolo come se fosse stato fatto di creta.
Tossì ancora e ancora, sbavando e rantolando come un vecchio cane, e sputò nel
lavandino.
Finalmente il lavandino gli rimandò il motivo per cui si trovava lì: vaste chiazze di sangue
risaltavano sulla ceramica bianca e un po’ sbeccata. Gli parve che il rosso fosse perfino
innaturale, quasi scandaloso.
In mezzo a tutto quel bianco e a quel rosso, vide nero.
Quando aprì gli occhi era di nuovo a letto, la stanza era la stessa, ma doveva essere sera.
Sentiva la gola strana, mezza addormentata e mezza scorticata, e aveva ancora in bocca
un orribile sapore metallico e amaro insieme.
Una lama di luce tagliò in due il letto mentre tre persone vestite di bianco entravano nella
stanza: indossavano il camice, e portavano in più maschere bianche con un piccolo filtro
laterale che gli coprivano metà del volto, dandogli uno strano aspetto da uccelli.
‘Ehi sembrate delle papere’, avrebbe voluto dirgli. La gola però non gli funzionava tanto e
si ripromise di lasciar perdere i tentativi di colloquio.
I tre medici sembravano giovani e inesperti, ma desiderosi di fare il loro dovere. Gli fecero
delle domande con voce gentile e lui cercò di rispondere a gesti.
Loro invece parlavano molto, soprattutto fra loro e velocemente, resi un po’ affannati dalle
maschere e dall’emozione, mentre uno dei tre scriveva su una cartella.
Voleva chiedergli notizie, ma loro lo precedettero citando la sua diagnosi: ‘tubercolosi
polmonare escavata con episodio di emottisi sottoposto ad embolizzazione in urgenza.
Ah ecco.

La gola gli si strinse. Voleva gridar loro che le parole tubercolosi, escavata e urgenza
facevano schifo anche prese singolarmente figuriamoci tutte e tre insieme, ma non lo
fece. Voleva strapparsi la flebo ma non lo fece. Voleva. Non lo fece.
Uno dei tre giovani uomini-uccello comunque si mise a spiegare: lo avevano trovato per la
strada tutto sporco di sangue ( ‘e molto ubriaco’ avrebbe dovuto aggiungere il giovane
dottore, ma con delicatezza evitò), in pronto soccorso avevano visto una caverna alle
radiografie, e lo avevano portato lì. Una caverna… gli parve un altro brutto segno quella
parola associata ad una persona. I medici proseguirono a spiegare: era successo quel
fatto del lavandino, per cui avevano dovuto addormentarlo e trasportarlo in un altro
reparto dove avevano bloccato il sanguinamento infilandogli un tubo giù per la trachea.
Adesso era di nuovo nella sua stanza. Il motivo per cui aveva mal di gola era quello, ma
sarebbe passato presto ok?
Allora arrivederci a domani dissero i tre giovani dottori. Lui alzò solo una mano: la caverna
gli aveva inghiottito la voce.
Quella notte dormì poco e male. Tanto per incominciare l’effetto della sedazione era
svanito senza lasciargli nulla della pace precedente, come un’amante che se ne va senza
salutare. Poi aveva male alla gola. E non beveva da ieri, sentiva le mani tremare.
Suonò il campanello e lo fece malvolentieri. Si affacciò dai vetri un’infermiera che gli
chiese se stesse bene. Lui gesticolò toccandosi la gola. ‘Aspetta che entro’ disse lei, con
un piccolo sospiro.
Cercò di farle capire che aveva mal di gola, sete, e che non riusciva a dormire. Che gli
dispiaceva di averla chiamata di notte. Che aveva l’ansia, e anche i nervi.
Lei non poteva capire tutto questo dai suoi gesti, ma lo aiutò a bere piccoli sorsi d’acqua
da un bicchiere sul comodino, e gli sembrò che niente potesse essere meglio del fresco
dell’acqua che gli leniva la gola.
Però era sempre così con lui, non appena stava bene ecco che arrivavano i mostri:
l’ansia, la smania, la ricerca costante di qualcosa che non poteva essere semplice acqua.
La tirò per la casacca bianca e le fece vedere le mani che tremavano. Fece un gesto
come di uno a cui manca l’aria. Lei lo guardò per un attimo prima di capire, poi disse ‘per
quello ti chiamo il medico, aspetta’ , e uscì dalla stanza.
Poco dopo entrò un’altra figura: si aspettava un uomo, ma era invece una donna dal viso
stanco, per quanto si poteva vedere nel buio e con la maschera. Era alta e robusta, aveva
la divisa stropicciata e l’andatura leggermente incerta di chi è stato bruscamente
svegliato.
‘Non riesci a dormire?’ gli chiese con semplicità, e lui fece cenno di no con la testa.
‘D’accordo, per stasera ti do delle gocce. Poi domani vediamo. Droghe?’ Altro cenno di
no. ‘Sicuro?’ Ecco, non gli credevano mai: mimò il gesto del bere.
‘Ascolta’ disse lei ‘ti diamo qualcosa che ti aiuterà sia per il dormire che per …il resto ok?’
Uscì lasciandolo solo con la promessa del farmaco, che arrivò poco dopo. Trangugiò
quell’amaro più che volentieri, e infine dormì.

I primi giorni passarono senza lasciare traccia. Dormiva moltissimo, e quando si svegliava
di solito era per la tosse che lo scuoteva. Cercava di soffocare gli accessi nel cuscino ma
ogni volta aveva paura di vedere di nuovo il sangue macchiare le lenzuola, e il terrore lo
prendeva. Allora chiedeva altre gocce che un po’ lo stordivano, benedette, e mentre
aspettava che facessero effetto guardava i lunghi tubi delle flebo pendere dall’alto. Si
accorse che non gliene importava nulla di nulla. Si accorse che non pensava nemmeno
più a bere, fintanto che prendeva la terapia tre volte al giorno.

Sentiva la stanchezza di un anno passato per strada di colpo tutta nelle ossa. La sentiva
nella schiena, fra le spalle. La caverna dentro di lui doveva essere grandissima, pensò,
sono un uomo con un buco al centro.
Dormire via quei giorni di tempo sospeso gli sembrava l’unica possibilità; il cielo era solo
un ritaglio di azzurro fuori dalla finestra, un concetto del tutto slegato dalla sua vita, come
un poster in una sala d’attesa.
Dopo un po’ cominciò a svegliarsi di più e meglio, ma si sentiva ancora stanco e stranito:
provava a seguire ciò che gli dicevano le figure mascherate che più volte nella giornata
apparivano accanto al suo letto, ma le parole gli scivolavano intorno come spire di fumo.
Lui continuava a non parlare, e nessuno pareva spiegarsi il perché. ‘Ti fa male la gola?
Che hai? ’ gli chiedevano, e lui alzava le spalle.
Venne un otorino per capire il motivo del mutismo, lui aprì la bocca obbediente e lasciò
anche che gli infilassero un cavo nel naso: dissero che non aveva nulla. Vennero i
logopedisti, anche loro mascherati, e stette ancora zitto.
Non poteva spiegargli il motivo, ma se non apriva bocca gli pareva di poter evitare alla
tosse di uscire, e lui volentieri si privava delle parole sperando di poter ostacolare quel
buio che aveva dentro.
Dopo diversi giorni lo misero seduto nel letto la prima volta, la testa gli girava ma pensò
che un cambio di prospettiva gli ci voleva, almeno avrebbe fissato anche le pareti oltre al
soffitto. Si guardò le gambe magre come due stecchi e rabbrividì. L’infermiera che lo
aveva aiutato a mettersi seduto lo notò: ‘Sei dimagrito tanto, dovresti ricominciare a
mangiare’ gli disse con voce gentile. Aveva ragione, certo, ma lui non sentiva dentro di sé
altro che vento. Era come se la caverna da cui nasceva la tosse avesse consumato tutto il
resto, quasi fosse un buco nero al centro del suo universo personale.
‘Buongiorno’
La voce profonda lo svegliò dall’ennesimo pisolino. Aprì gli occhi scocciato: intanto non
era giorno ma era sera (la cena era già arrivata da un pezzo e lui come al solito l’aveva
lasciata lì), e fuori era quasi del tutto buio. Stava dormendo in un’ora appropriata, o no?
Aveva preso tutte le medicine senza protestare, o no?
Vide che era la dottoressa della prima notte. Si voltò verso il muro deliberatamente
sperando che capisse che non aveva bisogno di nulla ma lei non commentò, e fece
invece una cosa completamente inattesa: trascinò una sedia vicino al letto e si sedette lì,
accanto a lui. La cosa lo spiazzò e lo innervosì ulteriormente, gli parve una violazione
tremenda della sua intimità, anche se era da quando stava lì che lo lavavano come un
bambino e lo aiutavano a cambiarsi. Sperò che ignorandola attivamente lei avrebbe colto
il messaggio e se ne sarebbe andata, ma lei incominciò a parlare.
All’inizio si impose di non ascoltarla, ma dopo un po’ suo malgrado si scoprì a seguire il
filo, seppur sconclusionato, dei suoi discorsi. Non parlava direttamente a lui in effetti,
chiacchierava a briglia sciolta di quello che le veniva in mente, o così almeno sembrava.
La sua voce profonda era tranquilla e serena come se fosse ad un caffè con amici.
Raccontava cose sparse: un cane che aveva visto per strada e che le era sembrato buffo,
il tempo che faceva e quello che invece lei avrebbe voluto, un uomo con l’ombrello che le
aveva pestato un piede sul pullman. Lui non parlò mai né si voltò, e dopo un tempo
indefinibile lei lo ringraziò, lo salutò, e andò via.
Da quella sera, quando tutti erano andati via e gli infermieri del turno di notte avevano
distribuito le terapie serali, eccola comparire nella stanza, con la maschera e il camice
stropicciato, che accostava la sedia al letto e attaccava a parlare. Alla fine lo ringraziava,
riponeva la sedia, e se ne andava.
Dopo qualche volta che questo accadeva decise di guardare quanto tempo stava, e si
accorse che si fermava circa mezz’ora, a volte anche di più. Quando finalmente scelse di
voltarsi dalla sua parte, perché non ne poteva più di guardare il muro, vide che parlava

come ad un vecchio amico, gesticolando, senza mai apparentemente esitare, esaurire gli
argomenti o avere bisogno di una risposta. Era quasi divertente nella sua assurdità.
Iniziò ad osservarla, sera dopo sera, mentre parlava e parlava: era una donna sulla
quarantina, aveva i capelli scuri, lunghi fino alle spalle, grossi occhiali rotondi che le si
appannavano con la maschera. Era alta e con le spalle larghe; le mani che non stavano
mai ferme non avevano anelli, le unghie erano corte e ben curate. Sul braccio sinistro
aveva una cicatrice a forma di croce.
Nel corso di due settimane gli aveva raccontato praticamente ogni esame che aveva
sostenuto durante la facoltà di medicina, il nome dei suoi gatti (che però aveva
dimenticato attivamente, perché non voleva assolutamente impararlo), tutte le ricette di
torte che aveva provato a fare e che non le erano riuscite bene, il suo colore preferito.
Si rese conto a poco a poco, con una punta di fastidio, che aspettava
quell’appuntamento stravagante ogni sera con un po’ più di trepidazione.
Senza accorgersene incominciò a tirasi a sedere nel letto, per sbirciare dalla vetrata posta
in altro sulla porta. Il primo giorno in cui lei lo trovò seduto disse soltanto ‘Oh bene, era
ora’, gli fece l’occhiolino e, accomodatasi al suo solito posto, riprese quelle sue
chiacchiere interminabili.
Gli parve che, racconto dopo racconto, si iniziasse a delineare una storia coerente: era
come mettere insieme i pezzi di un puzzle molto complesso. Sembrava che fosse sola se
non per i gatti, dei quali ormai si rese conto di avere imparato suo malgrado i nomi. Notò
che qui e là filtravano informazioni su una famiglia che viveva lontano, su dei genitori che
non avevano saputo capire il suo desiderio di spostarsi, su una nonna che le mancava e
che non vedeva chissà da quanto tempo, e su un dolore più profondo, che baluginava fra
le parole senza spiegarsi mai. Lei continuava a parlare come se niente fosse, e a
sorridere, e a gesticolare. Lui ascoltava.
Una sera come tante la sentì armeggiare più del solito mentre entrava: quando si
accomodò accanto a lui aveva fra le mani un involto di carta stagnola che posò sul
tavolino: ‘una delle poche torte che mi vengono bene’ disse con semplicità. Poi partì alla
carica a spiegargli le regole della pallavolo e i vari ruoli in campo e chissà che altre follie.
Quando se ne andò, dopo avergli illustrato con dovizia di dettagli diversi sport e il perché
lei non li avesse mai praticati, il pacchettino con la torta era ancora lì. Allungò una mano e
sfiorò l’allumino: avrebbe voluto assaggiarla, ma la caverna dentro di lui urlava, lo
stomaco vuoto da tanto tempo si contrasse. Si voltò di nuovo verso il muro.
La mattina dopo si svegliò, agitatissimo: doveva nascondere la torta? Doveva farle
credere di averla mangiata? Non voleva fregarla, ma non voleva dover dare spiegazioni.
Alla fine si alzò in piedi e camminò attraverso la stanza, la infilò dentro l’armadio, dietro
alla giacca che non aveva mai più indossato, e finse che nulla fosse accaduto.
Quella sera, per la prima volta, non venne nessuno.
Nemmeno la sera dopo la sedia venne scostata, né quella dopo ancora. Proprio come la
stanza, anche lui era pieno solo di silenzio.
Dopo cinque sere senza vederla, l’ansia lo divorava. Era anche arrabbiato con lei, in
fondo era un po’ come se gli stesse dando buca ad un appuntamento.
Camminò per la stanza come un leone in gabbia, senza neppure rendersi conto che per la
prima volta in tante settimane stava davvero facendo qualcosa. Stava sentendo qualcosa.
La sensazione che si instaurò subito dopo fu la vecchia, orribile, nauseabonda voglia di
fumare: come un automa camminò verso l’armadio per cercare le sigarette in una tasca, e
in quel momento il pacchettino con la torta rotolò fuori. Era una fetta di torta al cioccolato,
semplice, un po’ secca ormai, ma sembrava comunque ancora più che mangiabile.
Se ne ficcò in bocca un pezzo, e gli occhi gli si riempirono di lacrime.
Le infermiere che non lo videro a letto entrarono di corsa, e lo trovarono così, seduto per
terra, con gli occhi rossi e briciole di torta strette nel pugno.

‘Dov’è ?’
Oddio stava parlando. Lo guardarono a bocca aperta. ‘Chi cerchi caro?’ gli chiesero
sbalordite.
‘Quella che viene la sera. Non c’è più. Dov’è?’ La voce era fatta di cocci di vetro, ma si
rese conto che ogni parola gli usciva meglio della precedente. Era ancora capace. La
caverna stette tranquilla dentro di lui.
‘Oh, la dottoressa. Non è stata tanto bene, a volte le succede. Ma tu hai mangiato
qualcosa! Guarda! Hai fame?’
Si sorprese ad annuire.
Erano dieci giorni che lei non veniva a trovarlo.
Erano dieci giorni che lui mangiava di nuovo, ogni giorno un poco di più. Gli avevano tolto
le flebo, e aveva cominciato a prendere la cura in pastiglie. Iniziava a dare qualche
risposta seppure breve, e la sera da solo esercitava tra se e sé la voce.
Aveva camminato ogni giorno un po’ di più nella stanza. Aveva buttato via il pacchetto di
sigarette. Aveva acconsentito a fare anche un test per vedere se poteva uscire
dall’isolamento, e sebbene non fosse ancora giunto quel momento, sapeva che era
questione di poco, avrebbero riprovato la settimana prossima.
Ogni giorno si metteva d’impegno per migliorare un po’ di più, ogni sera si sedeva sul
letto ed aspettava.
Finalmente una sera la porta si aprì e lei entrò: lo trovò che le aveva preparato la sedia
accanto al letto, e che la aspettava in piedi.
‘Ciao’ le disse con la sua nuova voce, orgoglioso, e guardò i suoi occhi spalancarsi.
Un attimo dopo le braccia di lei lo strinsero: si abbracciavano in piedi in mezzo alla stanza
come due scampati, come due amici, come due naufraghi che sbarcano a terra.
La caverna tacque, piena di sole.

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